Associazione Wagneriana

Saggi su “L’Anello del Nibelungo” e “Die Walküre” (di Guido Salvetti)


  1. L’Anello del Nibelungo. Un’utopia di ardua definizione.

Autunno 2012
(Articolo scritto per il Teatro Massimo di Palermo)

La “trilogia” con “vasto preludio”, che oggi ci appare in tutta la sua monumentalità con il titolo L’anello del Nibelungo, rappresenta un caso unico in tutta la storia del teatro musicale: per la durata, per la complessità delle vicende rappresentate, per l’intrico dei significati, per il pathos che porta con sé ad ogni suo allestimento e ad ogni sua ripresa.

L’opera compiuta, come apparve a Bayreuth nell’agosto del 1876, è ben difficile che venga capita e apprezzata in tutta sua portata se non si diviene coscienti del travaglio che, per una durata di più di venticinque anni,  fu necessario alla sua creazione. Non era mai successo che un musicista dedicasse più di cinque anni (dal 1848 al 1854, tra mille ripensamenti) per scrivere il ‘libretto’ di un’opera senza intraprenderne la composizione musicale. Non era mai successo che, senza averne intrapresa la composizione musicale, l’autore dedicasse una simile enorme quantità di energie per chiarire i fondamenti teorici del suo agire, con la stesura di saggi e trattati, in alcuni casi di enorme mole: L’arte e la rivoluzione (1849), L’opera d’arte dell’avvenire (1859), Musica e clima (1851) e soprattutto Opera e dramma (1851). Si aggiungano alcune lettere di inaudita ampiezza, inviate ‘agli amici’ (quelli destinatari della vasta Comunicazione ai miei amici)tra cui spiccano August Röckel, il  letterato-rivoluzionario prigioniero nelle fortezze del re di Sassonia, e Franz Liszt, direttore a Weimar e vero apostolo della causa dell’amico.

La grafomania di quel quinquennio è stata, nel complesso, mal considerata, sia da coloro che l’hanno voluta giudicare come vera e propria opera di filosofia estetica (rimanendo impigliati nelle contraddizioni tipiche di una riflessione non sistematica), sia da coloro che ne hanno disconosciuto ogni merito tacciandola di insignificante dilettantismo. Questi due errori speculari hanno ignorato, di questa grafomania, la vera sostanza, che risiede all’interno di un processo creativo drammatico-musicale incapace di autodeterminarsi senza che ne venisse chiarito preventivamente il significato, la funzione, le condizioni che ne avrebbero garantito l’efficacia nei confronti del pubblico, della nazione, dell’umanità.

Si aggiunga anche che il progetto del Ring, a cui si accompagnava la riflessione sulla riunificazione delle arti nel dramma musicale e del riscatto delle arti dalla tabe del commercio e dell’industria, avveniva in anni politicamente e culturalmente turbolenti, vissuti da Wagner – si potrebbe dire – in prima persona, dapprima come rivoluzionario social-anarchico sulle barricate del maggio ’49 a Dresda, poi nella disillusione e nell’isolamento dell’esilio zurighese. Fu una traiettoria segnata anche da letture di opposta valenza: dall’eversione antropologica e anti-cristiana di Feuerbach (da cui scaturisce l’eroe Sigfrido che riscatta l’umanità dall’alienazione), all’accettazione dell’annientamento come forma suprema di saggezza: fu  attribuita nella Valchiria a Wotan nel marzo del 1854 poco prima che, nell’autunno di quello stesso anno, Wagner ‘scoprisse’ in Schopenhauer la nolontà, cioè la rinuncia alla volontà di vita.

Tutto ciò dà ampiamente ragione alla mancata linearità con cui si sviluppa il progetto del Ring, non solo per la sua singolare genesi ‘a ritroso’, ma forse ancor più per le piccole e grandi varianti del contenuto del messaggio che l’autore gli veniva via via attribuendo.

Particolarmente illuminante appare questa ‘genesi a ritroso’. Nel 1848 venne steso il primo abbozzo del Siegfried’s Tod [la morte di Sigfrido], il futuro Crepuscolo degli dei, ultimo dramma musicale della trilogia. L’intenzione originaria avrebbe portato a un’opera costituita da tre lunghi atti; ma già subito, nello stesso anno, Wagner aggiunse ai tre atti due scene di Prologo con valenza esplicativa. Dalla corrispondenza con gli amici (Röckel, particolarmente) emerge la difficoltà nel far comprendere in modo sufficientemente chiaro i preliminari della vicenda rappresentata; da qui la decisione di premettere un Giovane Sigfrido alla Morte di Sigfrido; e poi, La Valchiria al Giovane Sigfrido; e infine, alle tre opere, un preludio, che si chiamò allora – ottobre 1851 –  Il furto dell’oro del Reno.  Il procedimento a ritroso discendeva da una costante volontà di ridurre la narrazione degli antefatti, che sarebbe stata necessaria per chiarire gli avvenimenti contenuti nella Morte di Sigfrido. Wagner giudicava questo eccesso di racconti come un atteggiamento ‘epico’ tipico dei poemi omerici, ma scarsamente idoneo a condurre una rappresentazione drammatica che volesse mirare, come ebbe a dichiarare a Liszt nella fluviale lettera del novembre 1851, a destare nel pubblico “la più grande delle commozioni”.  

Ancor meno lineare fu l’evoluzione dei contenuti  ideologici lungo i cinque e più anni che occorsero per giungere alla stesura in versi pressoché definitiva del poema dell’Anello del Nibelungo. Cambiò negli anni, persino il protagonista della trilogia: non fu più l’eroe Sigfrido, ma l’anti-eroe Wotan. Inoltre si era completamente persa per strada l’idea iniziale (lettera a Kietz del settembre 1850) di far rappresentare la Morte di Sigfrido in un teatro in legno appositamente costruito, che, dopo tre rappresentazioni in una settimana, “sarebbe sta to bruciato assieme alla partitura”. A tanto era giunta l’utopia coltivata nei saggi teorici di quegli anni, per un’arte che avrebbe risvegliato il popolo-poeta dopo la lunga decadenza seguita alla raggiante stagione della tragedia greca del quinto secolo a.C.!  Subentrò negli anni un atteggiamento più realistico, che avrebbe portato venticinque anni dopo alla costruzione del Festpielhaus di Bayreuth: monumento destinato a perpetuare la grande opera del singolo artista dove l’idea della “festa” popolare rimase, oltre che nella denominazione dell’edificio, nella somiglianza con un grande tenda da circo che sarà perduta solo nel 1882, quando l’ingresso principale assunse l’odierno aspetto di un pronao neoclassico.

La contraddizione più profonda e più proficua riguardò proprio la struttura della narrazione. Fu sentita – dicevamo – come un possibile ostacolo alla continuità della rappresentazione, e quindi come una possibile causa di diminuzione dell’impatto emotivo del dramma musicale nei confronti del pubblico. Eppure tutti i tagli compiuti nella prima traccia della Morte di Sigfrido lasciarono sopravvivere, lungo i quattro poemi, racconti e rievocazioni, spesso ravvivati dalla partecipazione emotiva del narratore: ben altro che epica oggettiva! Si pensi per tutti al racconto di Sieglinde nel primo atto della Valchiria, dove convergono, tra l’altro, i magnifici raggiungimenti del Tannhäuser (il racconto del pellegrinaggio a Roma all’inizio del terzo atto) e del Lohengrin (il racconto della visione di Senta nel primo atto, o la rivelazione di Lohengrin nel terzo).  Quanto basti per dimostrare che l’atteggiamento riflessivo sulle proprie scelte estetiche, così debordante nei sei anni del silenzio musicale tra la fine della composizione del Lohengrin e l’inizio della composizione musicale del Rheingold, non significò per Wagner una vera opzione ideologico-filosofica a svantaggio del suo mondo drammatico-musicale. Tutto quello che veniva teorizzando e ‘poetando’ aveva il suo orizzonte nell’intenzione drammatico-musicale: la riuscita finale sarebbe stato affidata a un’orchestra evocativa e avvolgente quant’altre mai, nonché a un canto intriso in ogni momento del più espansivo dei lirismi.

Appare alquanto ozioso, quindi, soffermarsi più di tanto sulle aporie nelle quali si dibatteva il pensiero ‘teorico’ di Wagner negli anni di preparazione del Ring: pur tenendo presente la complessa problematica da cui scaturisce la sua ispirazione drammatico-musicale, quello che davvero scioglie contraddizioni e conflitti logico-deduttivi è la modalità concreta con cui il dramma e la musica danno a tutto le loro soluzioni. Lo disse, per altro, lo stesso Wagner quando scrisse a Röckel (gennaio 1854) che “solo attraverso la musica sarebbe stata chiara l’essenza del suo dramma” e che “ora io non devo più considerare la poesia senza la musica”. La questione gli si pose in termini ancor più generali quando, dopo aver continuato a cambiare il testo che avrebbe cantato Brünnhilde al termine della Götterdämmerung, decise che il vero significato di tutto il Ring, che da quella conclusione sarebbe stato determinato, si doveva ricercare nella musica. Ogni premessa troppo attenta al Wagner pensatore e ‘poeta’ può inverarsi cioè solo nel discorso sulle singole opere (sulle singole situazioni, addirittura) che costituiscono il grande monumento del Ring.

Das Rheingold. L’unica opera veramente “riformata”. Wagner ci ha lasciato alcuni abbozzi musicali dell’ Oro del Reno risalenti ai primi mesi del 1853, cioè al momento in cui aveva terminato tutti i libretti delle quattro parti dell’Anello, di cui diede pubblica lettura all’Hotel Baur au Lac di Zurigo e che pubblicò in edizione privata di 50 esemplari. Ma l’avvio della composizione doveva ancora attendere. Solo nel settembre di quell’anno, se dobbiamo credere all’Autobiografia,  durante un fiaccante malessere che lo costringeva a letto in un alberghetto di La Spezia, concepì nel dormiveglia l’idea iniziale del preludio all’Oro del Reno: un mi bemolle immobile nel basso per 130 battute, a cui progressivamente si aggiungono la quinta del basso e infine la terza dell’accordo: una sorta di cosmogonia della base armonica della musica, del suo spessore timbrico e del movimento ritmico; una metafora del tutto trasparente dell’origine stessa del mondo. All’inizio del novembre successivo, tornato a Zurigo, Wagner iniziò a comporre l’Oro del Reno sistematicamente, scena dopo scena: dal primo abbozzo su due o tre righe, allo spartito completo arricchito di annotazioni riguardanti la strumentazione [particella], fino alla partitura accuratamente stesa.  Quel lavoro occupò praticamente tutto il 1854, e rappresentò più che in qualsiasi altra opera di Wagner un forte collegamento con le idee di riforma contenute nei saggi e nei trattati pubblicati negli anni immediatamente precedenti, e soprattutto in Oper und Drama, pubblicato a Zurigo tre anni prima.

L’aspetto che caratterizza maggiormente l’Oro del Reno deriva direttamente dalla sua genesi letteraria, dove, nella sequenza ‘a ritroso’ dalla Morte di Sigfrido fino a questo Prologo, di antefatto in antefatto, viene a rappresentare un approdo a un tempo primordiale, che nella prima delle quattro scene arriva a rappresentare una sorta di ‘colpa originale’ (il furto dell’oro), prima della quale si giunge a immaginare un mondo ancora precedente, dove nell’acqua nuotano felici le Ondine. E ancor prima, nel preludio orchestrale cui accennavamo, si dà suono a un’immagine musicale che vorrebbe farsi metafora dell’origine del mondo. La regressione è totale, quindi, ed è del tutto ragionevole pensare che, come l’Oro del Reno è un Prologo staccato temporalmente dalle tre opere che seguono, così la sua prima scena  è immersa in un tempo mitico separato dal tempo lineare della narrazione  che si svolge nelle tre scene seguenti. Il nucleo stilistico dell’Oro del Reno è quindi il concetto di primigenio[ursprünglich], che si traduce immediatamente nella scelta drammatico-musicale di un linguaggio elementare.

Creature elementari sono le Ondine, la cui natura si colloca in uno stadio pre-umano tanto caro all’immaginazione dei romantici (Tieck,La Motte-Fouqué, Hoffmann): donne-acqua – come nel Parsifal fanciulle-fiore; creature assimilabili agli gnomi del bosco o agli elfi dell’aria – il cui canto è modellato su accordi perfetti e su metriche regolari. Elementare è la psicologia brutale dei giganti che pretendono di essere retribuiti per aver costruito il Walhalla: i temi che li caratterizzano sono la traduzione timbrica (ottoni e timpani) e ritmica (note puntate e metrica ripetitiva) della loro rozzezza.  L’orda dei Nibelunghi è priva di canto e parola. Ma anche quando si sale in stadi più evoluti, i personaggi di contorno (Freia, Froh, Donner, Loge) sono psicologicamente insussistenti e vivono soprattutto per gli attribuiti che vengono a loro forniti dall’orchestra: la melodiosità cantabile del violino solista per la dolce Freia; il colpo di timpano che, con Donner, mima il tuono e suscita l’arcobaleno; il guizzare incessante e tortuoso degli archi per Loge, creatura mercuriale e demonica.  Ancor più con Fricka il rilievo del personaggio si affida alla scelta musicale che le attribuisce il più importante squarcio di melodia di tutta l’opera, quando intona un vero e proprio Lied per esprimere il suo desiderio di felicità domestica. A uno stadio elementare appartengono, infine, anche i due protagonisti, Alberico e Wotan, accomunati dalla stessa propensione a delinquere,  in maniera più clamorosa e violenta il primo, in maniera più subdola e ipocrita il secondo. La musica attribuisce a loro caratteri opposti: i temi ‘di’ Wotan (quelli normalmente designati come “della lancia”, “del corruccio”, “del Walhalla”) prendono sul serio la sua potenza e la sua solenne regalità; quelli di Alberico (ruotanti intorno alla “maledizione” che egli lancia contro coloro che gli hanno rubato l’oro e l’anello) esaltano la sua natura violenta e malvagia con tutti i mezzi del cromatismo melodico-armonico  e con l’esplosione di un declamato drammatico di nuovissimo conio (forse desunto dall’aria di Florestano nel Fidelio e sorprendentemente assimilabile alla vocalità di contemporaneo Rigoletto, suo contemporaneo).

La musica, insomma, schematizza le distinzioni tra i personaggi ancor più di quanto venga suggerito dal dramma letterario. Nel complesso, quindi, la drammaturgia musicale dell’Oro del Reno si basa su elementi semplici, tra loro ben distinti e chiaramente percepibili. È quanto si potrebbe dire, guardando a una sinfonia classica, della cosiddetta ‘esposizione’, dove i due temi appaiono nelle loro specifiche caratteristiche, prima di essere elaborati e trasformati – e magari contaminati l’un l’altro – nella sezione del cosiddetto ‘sviluppo’. Così avverrà, con questi ‘temi’, quando ricompariranno nelle tre opere successive, con un vistoso – a volte vertiginoso – processo di evoluzione che approda alle sovrapposizioni polifoniche del Crepuscolo.

In modo altrettanto semplice e diretto appaiono, dietro le situazioni drammatiche di quest’opera, i modelli epici a cui fanno riferimento.

Da un lato stanno i miti di origine germanico-nordica, costitutivi di un’epica popolare a tinte forti e barbariche: ciò avviene con Fafner e Fasolt che accumulano il bottino dei Nibelunghi fin quando viene coperta alla vista la bella Freia, o quando, impossessatisi dell’anello,  dimostrano agli astanti atterriti quanto sia forte la maledizione che ne proviene. Ma è soprattutto con Erda, quando emerge dagli abissi per ammonire Wotan a cedere l’anello, che la sostanza stessa della mitologia nordica viene evocata con il suo fascinoso e terribile carico di magie, di anatemi e di paure: una sostanza che viene ingigantita dal colore orchestrale, dalla tortuosità delle armonie e da una vocalità scarna di inaudita energia. Né manca, all’interno del riferimento germanico, il mondo inquietante e ambiguo delle favole dei fratelli Grimm, qui presente, tra l’altro, nei meccanismi ripetitivi delle trasformazioni di Alberico, della sua spogliazione da parte di Wotan e Loge e della corrispondente spogliazione di Wotan da parte dei giganti. I meccanismi ripetitivi vengono assunti dalla musica con tutta la consumata abilità che il Wagner maturo ha acquisito nell’arte delle ripetizione variata e, in genere, dell’elaborazione tematica.

Dall’altro lato si leggono in trasparenza situazioni riferibili all’epica greco-classica, soprattutto all’Iliade. Il conflitto tra Wotan e Fricka nella seconda scena ricalca per contenuti e forma dialogica quello tra Giove e Giunone nel primo canto dell’Iliade: un conflitto borghese, si direbbe, tra marito infedele e moglie gelosa. Tutta questa scena e quella conclusiva è per altro dominata dalla rocca del Walhalla, una sorta di Olimpo dove quella piccola folla di dei e di dee è in attesa di assurgere.

Di converso in questo Prologo è davvero difficile rintracciare – anche musicalmente – la componente lirica e sentimentale che tanto spazio avrà in tutta la Valchiria o nel terzo atto del Sigfrido. Le psicologie sono schematiche e semplici: i personaggi sono, per ora, dei tipi. Qui si realizza in modo scoperto quanto proclamato in L’arte e la rivoluzione o nell’Opera d’arte dell’avvenire: per la fondazione di un nuovo teatro era necessario recuperare l’antica unità delle arti nel Dramma e sottrarsi alla richiesta di edonismo melodico che proviene dalle leggi del commercio e dell’industria culturale (Il giudaismo in musica). A tutto ciò che è elementare e originario si affida perciò la fondamentale serietà [Ernsthaftigkeit] di un’arte che pretende di svolgere un ruolo civile nella costruzione di un’umanità libera e, come insegnava Feuerbach, cosciente della propria forza vitale.

Per un ulteriore aspetto l’impianto dell’Oro del Reno deriva direttamente dalle teorizzazioni “rivoluzionarie” degli scritti coevi: come viene indicato in Opera e dramma, le melodie del canto sembrano qui davvero emergere da un’attenzione capillare e continua alla curva melodica che viene suggerita dalla declamazione della parola. La compenetrazione tra musica e parola diventa cosa tutt’affatto diversa dal recitativo dell’opera italiana, privo di contenuti musicalmente espressivi; ma anche dalla declamazione prevedibile e statica dell’opera francese alla Meyerbeer. La linea melodica si modella, nell’Oro del Reno, sul contenuto emotivo ‘interno’ alla parola, registrando ogni soprassalto, ogni ripiegamento, ogni frattura. Ciò permette una fluidità formale che aderisce alla più diverse ‘declamazioni’: a quelle precipitose di Alberico che cerca di afferrare le Ondine, come a quelle solenni della saggia Erda; da quelle pompose di Wotan a quelle sulfuree e ammiccanti di Loge.

Per un ulteriore aspetto Das Rheingold è opera integralmente “riformata”, molto più di quanto lo siano i tre drammi musicali successivi: in un atto unico di inaudita ampiezza, vi trova infatti perfetta applicazione il principio della continuità tra le scene e tra le parti delle stesse. In qualche momento del lungo e tortuoso processo creativo del Ring l’autore sembra pensasse di creare un’opera in tre atti, il primo dei quali sarebbe stato preceduto a sua volta da un Prologo. Ma negli scritti teorici la continuità veniva direttamente collegata con la necessità di una totale e quasi rituale immersione del pubblico nella rappresentazione, senza distrazioni o alleggerimenti mondani. Ebbene, nell’Oro del Reno l’”arte della transizione”, di cui giustamente Wagner andava fiero, raggiunge vertici inauditi, e utilizza a questo scopo, come non mai prima nel teatro d’opera, un’orchestra sinfonica ricchissima di sfumature. I casi più clamorosi si collocano nei passaggi tra le quattro scene.

Il primo interludio si riferisce al passaggio dalle acque del fiume Reno – dove è appena risuonata la prima maledizione di Alberich (quella in cui ripudia l’amore per poter godere del potere che gli viene dall’anello forgiato con l’oro rubato alla Ondine) – al pianoro dominato dal monte dove sorge, appena costruita dai giganti, la rocca del Walhalla. Ebbene, la melodia con cui Alberich pronuncia la maledizione dell’amore viene ripresa e lungamente modificata dall’orchestra, fino a trasformarsi in un motivo che ha una “curva” simile, ma con la solidità e la potente risonanza che le attribuiscono le tube. Il secondo e il terzo interludio sono, poi, vere e proprie raffigurazioni musicali del passaggio dei due compari Wotan e Loge dalla superficie terrestre al regno sotterraneo di Alberich, e viceversa. A un certo punto dei due viaggi risuona in lontananza, si avvicina e si allontana, il battito delle incudini a cui da Alberich è stato condannato come schiavo il popolo dei Nibelunghi. Questi brani orchestrali, in verità, non discendono dalla teorizzazione di un matrimonio stretto e costante tra musica e parola; di una ‘derivazione’ della musica dalla parola. Il rapporto potrebbe dirsi in molti punti rovesciato, tanti anni prima che – riflettendo sull’esperienza del Tristano – Wagner, nel saggio Beethoven del 1870, si facesse guidare da Schopenhauer a concepire un dualismo tra rappresentazione scenica e componente sinfonica che riproducesse il dissidio tra ‘superficie ingannevole’ e ‘sostanza profonda del mondo’.

In realtà la funzione evocativa dell’orchestra si sovrappone in qualche misura alla ‘semplicità’ drammaturgico-musicale che indicavamo come cifra stilistica del Rheingold. L’orchestra svolge un ruolo, semmai, che in Opera e dramma veniva assimilato a quello del coro nella tragedia greca: raffigurazione e scenario lei stessa e, d’altro lato, commento soggettivo all’azione rappresentata.

Per quanto riguarda la prima funzione abbiamo già ampiamente sottolineato come le scelte di orchestrazione contribuiscano in modo essenziale all’identificazione dei diversi personaggi e delle diverse situazioni: ne sono testimoni anche le didascalie del libretto, dove è continuo il riferimento ai cambi di luce e di colore, veri e propri appunti di orchestrazione in uno stadio estremamente rudimentale dell’illuminotecnica. E invece l’orchestra post-beethoveniana, l’orchestra di Berlioz o di Liszt, la sua stessa esperienza come direttore d’orchestra gli fornivano una quantità enorme di soluzioni timbrico-luministiche, con il trasfigurare dei timbri dagli archi ai leghi agli ottoni, dai tromboni alle tube ai corni e alle trombe, con l’uso di timbri ‘insoliti’ quali quelli del corno inglese o del clarinetto basso. Sono lontani i tempi delle banalità orchestrali del Rienzi, divise tra la funzione di ‘accompagnamento’ tipica dell’opera italiana e il fragore bandistico alla Spontini.

Ecco allora emergere l’altra funzione che segnalavamo: quella del “commento”, cioè dell’intervento dell’orchestra a chiarire e approfondire il significato di ciò che viene rappresentato.  Si affina qui, e si potenzia, quanto già presente nel Lohengrin in cui sono rilevabili in orchestra dei temi ricorrenti che identificano personaggi e situazioni. Nell’Oro del Reno diventa più chiaro che non si tratta solo di denotazione, che pure è ben presente in rapporto ai vari personaggi e alle varie situazioni; la funzione orchestrale, con i suoi temi così come con la sua tavolozza timbrica, diventa ora anche e forse soprattutto quella della connotazione, dell’attribuzione di significato. Su questo terreno si gioca la più appassionante delle ‘riforme’: quella di tradurre una drammaturgia sostanzialmente fondata sul presente della rappresentazione scenica, come era quella dell’opera italiana e dell’opera francese, in una drammaturgia ricca di sovrapposizioni sul presente scenico di elementi, soprattutto orchestrali, appartenenti al passato e al futuro.

Già nella prima scena, quando Alberico rinuncia a impossessarsi delle Ondine, risuona un tema rilevantissimo, indicato dai commentatori come quello della ‘rinuncia all’amore’. Questo è il primo nucleo di una serie di idee musicali minacciose: una maledizione attende – nel futuro – i protagonisti delle sciagurate imprese che vengono mostrate nel loro svolgersi. Protesa verso un futuro tragico è anche la magnifica parabola tematica, inesorabile nel suo ritmo largamente puntato, che accompagna l’avvertimento di Erda (il tema della “fine del mondo”). E verso un futuro di gloria, per quanto illusoria, è la tromba che intona, nel finale di quest’opera, una fanfara eroica (il cosiddetto “tema della spada”).

Man mano che l’azione si svolge, al presente scenico si cominciano a sovrapporre, nell’orchestra, reminiscenze che assumono nella ripetizione il valore di nevrosi mnestiche. Ciò avviene in particolare con il tema “della maledizione”. Ma ancor più inquietante è il riapparire del pianto delle Ondine nel momento che dovrebbe essere trionfale della salita degli dei al Walhalla, sull’arco tracciato dall’arcobaleno. Quel pianto rammenta agli dei e a noi che il potere e il denaro hanno prodotto una violenza nell’ordine naturale: hanno generato ingiustizia e schiavitù, e si sono avvalsi per fini egoistici della Natura. Questo dicono, con maggiore o minore chiarezza, le Ondine e Loge. Ma questo ci dice in modo inequivocabile l’orchestra interrompendo il tripudio festante con il tema “della maledizione dell’oro”.

Per utilizzare una famosa categoria critica enunciata da Schiller nel suo Della poesia ingenua e sentimentale, si potrebbe quindi sostenere che l’intenzione epica (‘ingenua’ nell’accezione di Schiller) che guidò Wagner nel percorso creativo della parte letteraria dell’Anello del Nibelungo è sostanzialmente contraddetta dall’elemento ‘sentimentale’ incarnato nel fiume sinfonico. L’autore è cioè costantemente presente con la sua carica emotiva e critica. Ci vorranno degli anni perché a livello teorico Wagner riesca a comprendere, nel saggio Beethoven, quanto la Musica fosse il vero protagonista dei suoi drammi. Ma già nel Rheingold il miracolo di una tragedia che nascesse dallo “spirito della musica” (come dirà Nietzsche) era già compiuto.

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  1. Die Walküre prima giornata del Ring des Nibelungen: un dittico

Inverno 2012
(Articolo scritto per il Teatro Massimo di Palermo)

Tra Das Rheingold [L’oro del Reno] e Die Walküre [La Valchiria] c’è un rapporto più stretto che tra le altre ‘giornate’ del Ring, a cominciare dall’intreccio cronologico nel concepimento dei drammi letterari. Infatti gli abbozzi, cioè l’ampia stesura in prosa del soggetto con l’inserimento pressoché completo dei dialoghi, furono scritti nell’ordine temporale della narrazione: prima ilRheingold  (tra il 23 e il 31 marzo 1852), poi Die Walküre (tra il 17 e il 26 maggio 1852); i ‘poemi’, invece, cioè la versificazione definitiva del libretto, furono stesi continuando quel percorso a ritroso, da antefatto in antefatto, che era stato seguito per le opere precedenti: Die Walküre tra il 1° giugno e il 1° luglio 1852; Das Rheingold tra il 15 settembre e il 3 novembre 1852.

Questa vicinanza è giustamente sottolineata dalla scelta dei teatri, che, nell’allestire il Ring, tengono conto che la durata delVorspiel (poco più di due ore) è circa la metà rispetto alle quattro ore di Die Walküre. E quindi programmano le due opere in giorni vicini, mentre tra le altre due viene intramezzato un giorno di riposo. Così fu nell’agosto del 1876 all’inaugurazione del Festspielhaus di Bayreuth: 13 e 14 agosto, rispettivamente il ‘Vorspiel’ [Preludio] Das Rheingold Die Walküre; le altre due il 16 e il 18. Serve ricordare che all’ Hof- und Nationaltheater di Monaco nel settembre del 1869 e nel giugno del 1870 le due opere erano apparse prima che il Ring venisse completato: avvenne per volere di Ludwig  e contro la volontà dell’autore; e, per giunta, con un direttore d’orchestra filo-brahmsiano come Franz Wüllner.

Ci sono più sostanziali aspetti di questo legame tra le due opere, che dovrebbero consigliare di rappresentarle, se non necessariamente in giorni consecutivi, almeno a una distanza di tempo che non annulli, nel momento in cui si scatena la tempesta sinfonica che apre la Valchiria, il forte effetto che lascia nello spettatore la conclusione falso-trionfale della prima (con gli dei che salgono al Walhalla e il pianto delle Ondine a cui è stata fatta violenza).

L’effetto drammatico tra quella fine e questo principio viene ingigantito dall’abissale distanza temporale che noi percepiamo, certo non solo dai libretti, ma soprattutto da una musica che trapassa dall’epicità priva di emozione e di lirismo, allo scatenarsi di tutti i formidabili mezzi con cui il Wagner delle opere “romantiche” aveva incarnato in musica una gamma enorme di sentimenti umani: dalla paura alla speranza, dall’eroismo alla disperazione, dall’amore all’odio. Si dice correntemente che il salto è tra un tempo mitico e un tempo storico: bisogna aggiungere che in quei miti abitavano dei ‘tipi’ elementari (tutti: dei, giganti, nani), e che in questa ‘storia’ abitano ora i sentimenti degli uomini, quali sono Siegmund, Sieglinde e, perché no?, Hunding. E sono sentimenti talmente debordanti e appassionati da umanizzare anche gli dei (Wotan, in primis, con la sua ira, la sua commozione paterna e la sua disperazione) e i semidei (Brünnhilde, eroicamente determinata e tremebonda di fronte al castigo).

Il completamento della parte letteraria di queste due opere costrinse Wagner, alla fine del 1852, a riprendere in mano Siegfrieds Tod (che divenne Götterdämmerung) e Der junge Siegfried (che divenne Siegfried), per ottenere la migliore coerenza possibile con ciò che rimaneva del progetto iniziale concepito tra le fiamme rivoluzionarie del 1848. Ciò era divenuto necessario man mano che si era insinuata, nella sua immaginazione, una diversa immagine – e una diversa importanza – di Wotan, a cui soprattutto egli affidava un messaggio che riassumerà più tardi (lettera a Röckel del 25 gennaio 1854) con queste parole: «Bisogna imparare a morire, nella piena accettazione del termine […] Wotan è portato di slancio fino al culmine tragico: volere la sua propria caduta – ecco tutto quello che dobbiamo imparare dalla storia dell’umanità: volere ciò che è necessario e compierlo noi stessi». Questo messaggio è parso derivare dalla lettura di Schopenhauer; ma non fu certamente così, perché Wagner lesse Il mondo come volontà e rappresentazione [Die Welt als Wille und Vorstellung] di Schopenhauer solo nell’ottobre di quell’anno; ed egli stesso ebbe a dichiarare che i contenuti di quel libro ‘meraviglioso’ (lo rilesse per tre volte) gli erano già prima familiari.

Un Wagner ‘diverso’

Se la scrittura del poema aveva seguito un itinerario – come abbiamo visto – molto tortuoso e travagliato, la composizione della musica – iniziata dopo una paralisi creativa di dieci mesi che si sciolse soltanto nel settembre del 1853, seguì un’ordinata sequenza narratologica. La partitura di Das Rheingold si concluse il 28 maggio 1854, e un mese dopo, il 28 giugno, iniziò la composizione di Die Walküre, che si concluse, dopo solo nove mesi, il 23 marzo 1856. Die Walküre fu investita più delle altre tre opere dalle vicende biografiche e soprattutto ideologiche che fecero di Wagner una persona notevolmente diversa da quando, Kapellmeister della corte di Dresda, aveva concepito il dramma musicale sulla morte di Sigfrido. All’inizio prevaleva il messaggio filosofico-politico della caduta del vecchio ordine e della fondazione di un nuovo ordine ad opera dell’eroe Sigfrido. Ora, negli anni del riflusso post-1848, l’indebolimento delle ragioni per un messaggio messianico aprì le porte alla facoltà di dar vita ad affascinanti immagini mitiche, a grandiose prospettive cosmologiche, a personaggi di complessa e ricca psicologia. Si impose, insomma, la fantasia letterario-musicale, che già negli anni di Dresda gli aveva fatto desiderare “racconti fantastici”, liberi dagli apparati delle “grandi opere”. Die Walküre, in particolare, è il segno della conversione, come l’autore stesso capì ancor prima di accingersi alla versificazione del libretto: «Eccomi qui di nuovo più commosso che mai dalla magnificenza e dalla bontà del mio soggetto: tutta la mia visione del mondo vi ha trovato la più perfetta espressione artistica» (lettera a Theodor Uhlig del 31 maggio 1853). Questa è la misura del coinvolgimento emotivo con cui Wagner lavorò negli anni di Zurigo (1850-59): grande con Die Walküre, sommo con Tristan und Isolde. Sono quelle “opere miracolose” che – secondo quanto scriverà nell’ottobre 1859 a Otto Wesendonck dopo aver drammaticamente abbandonato Zurigo – aveva concepito «con lo sguardo rivolto alle sublimi montagne incoronate dall’oro del sole». Die Walküre, in particolare, fu davvero quell’”atto di amore”, di cui parla Thomas Mann, verso i miti adombrati e appena tratteggiati nei racconti della Morte di Sigfrido, e desiderosi, in modo prorompente, di vivere di vita propria.

Sono miti, innanzi tutto, in cui sono ormai quasi irriconoscibili le fonti medievali. Il Codex regius che contiene l’Edda è lacunoso proprio nella parte del concepimento del futuro eroe Singfjötli “che non conosce la paura”, e la Volsungasaga, rozza e intricata, che solitamente Wagner utilizzò per integrare le lacune nei racconti dell’Edda, in questo caso non può servire allo scopo, poiché si occupa, sì, di un eroe, Sigurd, che uccide un drago e risveglia Brünnhilde, ma lo fa figlio, anziché della coppia incestuosa Signy-Siegmundr, dell’unione legittima di Siegmundr con Hjördis. Wagner si sentì ancor più libero per muoversi, all’interno del mito, con totale libertà, rendendolo portatore di valori che non hanno nulla a che fare con un qualsiasi poema eddico. Qui, forse più che altrove, Wagner usa fonti nordiche antiche, ma le svuota sia della sostanza arcaica sia dei connotati nazionali o razziali. La tecnica usata è simile a quella da cui scaturiscono tutte le altre opere di Wagner a cominciare, almeno, dall’Olandese volante: una contaminazione di fonti di diversa epoca, di diversa area culturale, di diverso livello artistico, al fine di ottenere una linea narrativa coerente e continua. Questo tipo di sincretismo non mira soltanto a rendere rappresentabili poemi che appartengono alla tradizione epico-narrativa: nell’autobiografia di Wagner, come nello sterminato epistolario, si trova ampiamente documentata l’importanza che egli attribuiva a come gli stessi personaggi appaiano con nomi diversi in storie o opere di diversa epoca e diverso paese: basti ricordare come avesse ‘riconosciuto’ in Federico Barbarossa gli stessi connotati di Sigfrido; e come a noi stessi appaiano fin ovvi i rapporti tra la mitologia greca e la mitologia nordica, almeno per quanto riguarda le ‘traduzioni’ operate da Wagner.

Amore e anarchia.

Il soggetto de La Valchiria, sfrondato da tutti i particolari e le divagazioni delle saghe nordiche, colloca al centro, romanticamente, l’amore assoluto, più forte di ogni legge e di ogni costrizione. Ritornano nel primo atto di Die Walküre le idee propugnate nei suoi vent’anni: quelle  della cosiddetta “giovane Germania” di Heinrich Heine e Heinrich Laube, che, nell’avversione all’autoritarismo censorio e poliziesco dello stato prussiano, aveva riportato in auge l’utopia anarchica di una società di liberi ed uguali: una società in cui il libero amore infrangesse tutti i tabù sessuofobici. Per Wagner era stato decisivo (nel momento della composizione di Das Liebesverbot [Il divieto di amare], 1834), il romanzo Ardinghello e le isole felici (1787) di Wilhelm Heinse, che aveva insegnato a due generazioni di tedeschi la ricerca della felicità in una nuova sensualità mediterranea. Da questa solarità deriva a Die Walkürel’amore di Sieglinde e Siegmund: a Wagner non interessa scandalizzare i borghesi del tempo con la rappresentazione-giustificazione dell’incesto, uno dei più forti tabù della civiltà occidentale moderna; l’utilizzo di questo mito eddico risponde piuttosto all’intenzione di mostrare con quanta energia l’amore può travolgere ogni cosa e come qualsiasi ostacolo ne venga travolto. Nel primo atto di Die Walküre se ne ha una traduzione visiva di grande impatto: l’onda amorosa del duetto abbatte la parete che separa i due amanti dallo sbocciare della primavera…

La temperatura emotiva di Die Walküre si avvale poi dei vasti orizzonti, montani e celesti, che avvolgono la vicenda: le Valchirie appartengono al regno delle nubi; nelle nubi si svolge il duello tra Siegmund e Hunding; sulla vetta di un monte roccioso si alza il fuoco a protezione di Brünnhilde addormentata. Questa ambientazione non è di cartapesta; discende viva e palpitante dalla grande passione per la montagna che allietò e purificò i primi anni zurighesi dell’autore, quando compì plurime traversate alpine e attraversò ardui ghiacciai, affacciandosi a grandi vallate (il Vallese, l’Engadina) e ai grandi laghi. Questa appassionata sensibilità naturalistica si esprime in quest’opera con una scrittura orchestrale di travolgente bellezza, che si avvale fino in fondo – e oltre – sia della conoscenza dei poemi sinfonici di Liszt, sia dell’esperienza direttoriale con le Sinfonie di Beethoven tante volte dirette, in quegli anni, a Zurigo e a Londra. La cosiddetta “Cavalcata delle Valchirie”, che apre il terzo atto, porta al parossismo il ritmo puntato del primo tempo della Settima di Beethoven: vittima delle cattive esecuzioni da circo Barnum, questo brano contiene invece l’energia leggera e travolgente di un volo a schiera tra le nubi. Il Preludio al primo atto realizza in modo appassionante l’identità di una tempesta naturale con la tempesta dell’anima di chi è in fuga disperata. Più ancora: le plurime risonanze di questa orchestra, così come i suoi grandi silenzi, creano intorno a tutti i momenti della vicenda una tensione tragica che eleva gli accadimenti a una dimensione eroica e leggendaria.

Con altrettanta partecipazione Wagner penetra nel fondo tormentato e torbido dell’animo di Wotan, dio che compie violenza verso se stesso e che abdica alla potenza fino al punto da intenerirsi accarezzando in lacrime la figlia dormiente. Confluisce qui, con grande impatto, l’instabilità emotiva, particolarmente acuta intorno ai quarant’anni del musicista. La crisi matrimoniale precipitò già nel corso del 1850, quando Richard scappò da Parigi, spaventato dall’idea che ci stesse arrivando Minna, a cui, poco dopo, scrisse chiedendole il divorzio. Le cose si aggiustarono per pochi anni, per l’infelicità di entrambi; ma, nel frattempo, Wagner ebbe due appassionate infatuazioni: quella del 1850 con Jessie Laussot, per amore della quale rischiò di essere sfidato a duello e progettò una fuga in Grecia e in Asia minore; quella più lunga con Mathilde Wesendonk, giovane moglie del ricco industriale Otto, che fu il suo principale mecenate durante il soggiorno zurighese e anche, successivamente, a Venezia e a Lucerna. Il pensiero di Mathilde appare costante durante la composizione di quest’opera: a lei alludono nell’autografo del primo atto i criptogrammi “G S M” (“Gesegnet sei Mathilde”, sii benedetta Matilde) e “S m g M” (“Sei mir gegrüβt Mathilde”, abbi il mio saluto Matilde). La scelta musicale che nasce da questo coinvolgimento emotivo è sostanzialmente la melodia cantabile e appassionata, che tanto più giunge a stupirci dopo la declamazione, melodicamente inibita, dell’Oro del Reno e la corrispondente teoria contenuta in Oper und Drama. E invece in La Valchiria è pienamente operante la correlazione tra commozione del personaggio e tensione melodica del suo canto: non solo Siegmund e Sieglinde; Brünnhilde e Wotan. La melodia vocale si rispecchia nei tanti a solo  del clarinetto basso, dell’oboe, del corno inglese; ed erompe commossa nei violini in ottava e nei violoncelli.

Un tempo tridimensionale

Questo stesso melodizzare risolve anche l’eterno nodo wagneriano del “racconto”. Nell’introduzione al Ring des Nibelungen,scrivevo che «il procedimento a ritroso discendeva da una costante volontà di ridurre la narrazione degli antefatti, che sarebbe stata necessaria per chiarire gli avvenimenti contenuti nella Morte di Sigfrido. Wagner giudicava questo eccesso di racconti come un atteggiamento ‘epico’ tipico dei poemi omerici, ma scarsamente idoneo a condurre una rappresentazione drammatica che volesse mirare […] a destare nel pubblico “la più grande delle commozioni”». Il noto paradosso che nasce da questa sua intenzione consiste nel fatto che, dopo aver premesso ben tre opere per rappresentare gli antefatti e quindi, ragionevolmente, per ridurre i racconti, in Die Walküre essi ci siano, e numerosi.

Nel primo atto ben tre sono i racconti con cui Siegmund rievoca le sue avversità. Sieglinde, a sua volta, narra di come un viandante (Wotan, sotto specie di Wanderer) sia apparso durante il triste banchetto delle nozze con Hunding a cui Sieglinde era stata forzata; e di come avesse infisso una spada nel tronco del frassino. Nel terzo atto Wotan rievoca tutta la sua travagliata ricerca del potere e della felicità, riferendosi agli eventi che, in parte almeno, abbiamo già visto rappresentati nel Rheingold e che in parte si collocano nell’intervallo, ancora mitico, tra il Rheingold e Die Walküre.

Con ogni evidenza, il racconto svolge (come era stato in Der fliegende Holländer, nel Tannhäuser e in Lohengrin) ben più che una funzione esplicativa degli antefatti. I modi del racconto, che sono quelli del coinvolgimento di chi lo ascolta, per destare in lui compassione (nel senso letterale di Mitleid), sono una vera e propria ‘forma’ musicale che progressivamente si infiamma man mano che si avvicina al presente. I personaggi narrano, ma la musica si riferisce – oltre che ai “contenuti” di tali racconti, tradotti in citazioni tematiche di ascolti passati – all’animo di chi narra e alle reazioni che la narrazione produce nell’animo di chi ascolta. Riferendosi a questa partecipazione emotiva, la vocalità si innalza immancabilmente dalle formule iniziali di recitativo-declamazione a grandi archi di melodia a piena voce. Verso il canto disteso convergono del resto, come segno di sofferta partecipazione, anche situazioni drammatiche più complesse del puro trasporto amoroso: si traduce in melodia la foga con cui Siegmund, conosciuta la propria sorte, esprime la volontà di uccidere Sieglinde e di morire con lei; si esprime in pura e grande melodia il tragitto psicologico con cui nel terzo atto Sieglinde trapassa dal desiderio di morte alla radiosa visione del futuro eroe che porta in seno, fino al quasi delirante sfogo lirico di ringraziamento a Brünnhilde: le parole di questo vero culmine melodico dell’opera sono: “O hehrstes Wunder, herrliche Maid!” (o somma meraviglia, o vergine stupenda); sono parole che il canto trascende, attribuendo al frammento melodico un livello simbolico così elevato da poter reggere al termine del Crepuscolo la conclusione ultima di tutto il ciclo. Analogamente, è al canto spiegato che approda Brünnhilde quando decide di accorrere in soccorso a Siegmund, disubbidendo a Wotan. E un grande arco melodico è quello che avvolge Wotan e Brünnhilde abbracciati, dopo che il dio ha deciso di proteggere con il fuoco la figlia addormentata, in modo da preservarla per l’eroe futuro.

La soluzione melodica, quindi, scelta come più consona al nucleo romantico-amoroso del dramma, si rifrange anche sulle struttura narrative e persino sui momenti di riflessione concettuale, tutto investendo di un calore che è certamente tra le ragioni delle maggiore popolarità di quest’opera, anche di fronte a pubblici non-wagneriani.

Eppure La Valchiria non sacrifica alla vena melodica alcuna parte della complessità drammaturgica su cui Wagner stava edificando, in quegli anni, l’utopia di un teatro nazionale tedesco. L’edonismo latino – aveva scritto in Oper und Drama  – poteva appagarsi, scena dopo scena, di quanto in quel momento viene rappresentato e cantato.

La profondità tedesca che Wagner si proponeva di restaurare si rispecchia in una temporalità tridimensionale, che è resa possibile soprattutto dalla funzione svolta dall’orchestra, con le sue reminiscenze tematiche e con i suoi momenti di precognizione. In La Valchiria l’orchestra ci riconduce incessantemente ai temi che nell’opera precedente avevano illustrato la maledizione dell’oro, l’illusoria potenza del Walhalla, il corruccio di Wotan, l’ottusa pesantezza dei giganti, la fatica ossessiva dei Nibelunghi, la premonizione minacciosa di Erda, e tante altre situazioni. Anche il futuro è, qui, presagio e speranza: il salvifico eroismo delle fanfare, dette “della spada” (che sarà della tromba, ma che la prima volta, come presagio, è affidata all’oboe) e “di Sigfrido”; la “redenzione”, che erompe al culmine del canto di Sieglinde, come prima dicevamo.

Che il racconto sia una componente essenziale della drammaturgia di Wagner, è mostrato anche da una delle poche modifiche tra l’abbozzo in prosa e il poema in versi della Valchiria. Nell’abbozzo si prevedeva che Wotan apparisse in scena nel primo atto, e che infiggesse la spada nel frassino. Come si sa, di questa apparizione di Wotan nella capanna di Hunding e Sieglinde non c’è traccia se non nel racconto esaltato e partecipato di Sieglinde nel primo atto. Anche in questo caso la scelta è tra la rappresentazione oggettivata e l’effusione lirica ed emotiva, che dà ai personaggi uno spessore ‘puramente umano’, lontano sia dalle elementari tipologie dei personaggi del Rheingold, sia dalla dimensione realista del melodramma francese o italiano.

L’orchestra trascende non solo il presente scenico, ma anche gli angusti ambiti dello spazio scenico: con un grado di felicità inventiva raramente raggiunti da Wagner, si aprono all’immaginazione spazi lontani e immensi. E’ la componente fantastica dellaValchiria, per la quale l’orchestra suggerisce – come dicevo – le dimensioni delle nubi e delle tempeste, dei cieli e delle montagne. Nel Preludio al primo atto si accumulano, a successive ondate, spessori timbrici crescenti e si aprono squarci di orizzonte con le diverse fanfare, ora di corni, ora di tube, ora di trombe e tromboni: tempesta, inseguimento, agitazione terribile dell’animo. Nel secondo e nel terzo atto i grandi pannelli orchestrali si alternano ai momenti sentimentali e riflessivi e si riferiscono al mondo barbarico-eroico delle Valchirie; all’epico duello sulla montagna, alla tempesta che domina tutta la prima parte del terzo atto, nella quale si manifesta l’ira di Wotan contro Brünnhilde, ribelle al suo volere; all’elevarsi della barriera di fuoco sulla vetta del monte su cui giace Brünnhilde addormentata.

In tutti questi casi è enorme il dispiegamento di mezzi sonori: gli ostinati e i tremoli degli archi; gli squilli laceranti degli ottoni; e anche il violento erompere dello Stierhorn [corno di bue] di Hunding, della macchina del tuono, delle voci nel megafono, dei terribili colpi di lancia sulla roccia. Si moltiplicano i piani sonori, gli echi, le multiple risonanze in un’inedita consistenza polifonica. Concorrono qui tante esaltanti esperienze, di Beethoven, di Liszt, di Berlioz: ma ogni modello appare come magnificato, sostanzialmente esasperato.

Volere di non volere

Per cogliere la grandiosa e felice complessità della Valchiria occorre ancora ricordare che nel momento della sua gestazione musicale si collocano la lettura e la rilettura del Mondo come volontà e rappresentazione. Se quella lettura non comportò alcuna modifica al testo letterario della Valchiria, e se Wagner rivendicava di aver concepito il senso della sua opera in termini ‘schopenhaueriani’ prima di conoscere Schopenhauer, è pur vero che, con la potenza della sua musica, tra l’ottobre 1854 e il 20 marzo 1856, ebbe ampiamente la possibilità di esaltare nell’opera la cosiddetta ‘componente estatica’, cioè l’atteggiamento riflessivo di una filosofia della rinuncia e del distacco da tutto.  Del resto è ben noto che, ancor prima di terminare la stesura musicale di Das Rheingold, in una lettera del 25 gennaio 1854 all’amico August Röckel, incarcerato per aver partecipato assieme a lui ai moti del 1849 a Dresda, Wagner si era espresso in termini perfettamente “schopenhaueriani”. Egli aveva definito gli ex- rivoluzionari, come se stesso e Röckel, come appartenenti a un vecchio ordine destinato a scomparire. I rappresentanti del nuovo ordine saranno veramente nuovi se saranno liberi anche dagli insegnamenti del passato. La grandezza di Wotan consiste quindi nel “volere ciò che è necessario”, cioè il proprio “annientamento”, lasciando il posto a Sigfrido.

L’”espressione estatica” che Wagner ritrovò con autentica esaltazione in Schopenhauer – l’accettazione del dolore, la mortificazione della volontà di vivere – determinò in profondità la soluzione musicale dei grandi momenti che chiameremmo “concettuali” e “filosofici” di quel dramma.

Il segno dell’”espressione estatica” sta nella macerata e tremenda immobilità all’apparire di Brünnhilde annunciatrice di morte a Siegmund che veglia su Sieglinde dormiente. Questo momento, che è ritenuto da molti commentatori tra i vertici drammatico-musicali di tutti i tempi e che rivela nel modo più diretto il riferimento ai poemi omerici, con le apparizioni degli dei agli eroi a guidarne l’azione, è davvero costruito attraverso i suoi silenzi. E i silenzi – forse solo loro – innalzano quell’annuncio di morte nelle sfere di una vertiginosa contemplazione della condizione umana. Non dissimile l’incontro, nell’atto seguente, tra Brünnhilde fuggitiva e Wotan adirato contro di lei. La soluzione musicale di quest’ira è singolarmente depotenziata rispetto alle parole del libretto e lascia il posto ben subito a una sorta di pietà immensa di Wotan verso se stesso e il proprio destino.

In questi casi, e in tanti altri dove dal confronto dialogico si producono modifiche su questo o quel personaggio, la tecnica drammaturgico-musicale di Wagner raggiunge vertici di efficacia con quell’”arte della transizione” di cui egli stesso si diceva orgoglioso: la possibilità cioè di utilizzare l’’elaborazione tematica’ [la thematische Arbeit] appresa da Beethoven per disegnare percorsi psicologici profondi. Nella manualistica wagneriana si abusa del termine “melodia infinita”: che si tratti dell’inesausta capacità di Wagner di costruire una continuità di grande gittata, è fin ovvio; ma questo dato tecnico acquista significato quando – come nei lunghi dialoghi della Valchiria – la lunghezza e la continuità della forma melodica (solistica o dialogica) è la condizione per rendere drammaticamente efficaci i processi psicologici che portano i personaggi ad evolversi e a mutare risoluzione: situazioni, queste, che costituiscono nella Valchiria una struttura portante delle varie – e tragiche – peripezie: quelle che portano alla fuga di Sieglinde con Siegmund nel primo atto; nel secondo, quelle che inducono Wotan ad obbedire alla dura legge di Fricka; o Brünnhilde a disobbedire al padre; quelle che, nel terzo, portano Wotan dall’ira alla comprensione che la disubbidienza della figlia era riferita alla sua ‘vera’ volontà, conculcata dal formalismo moralistico di Fricka.

L’interesse filosofico diventava così per Wagner non tanto un’attitudine al dibattito delle idee – che pure lascia qualche traccia nel confronto tra Fricka e Wotan sulla legittimazione dell’incesto –, quanto esperienza bruciante del negativo, del male, del dolore. La grandezza di Wagner fu aver trovato la via puramente musicale verso questa esperienza: rarefazione della grande fiumana sinfonica; timbri crepuscolari e bui come oscuri presagi; ritmi segmentati; dispersione del canto in frammentari lamenti.  Qui giunsero dunque definitivamente a naufragio i programmi e gli schemi ideologici del rivoluzionario-redentore. L’opera fu segnata, piuttosto, dall’onda montante di tutti gli entusiasmi emotivi e intellettuali di quegli anni, che definiremmo – almeno per quanto riguarda l’arco temporale da La Valchiria  fino al Tristano  – gli anni della vera giovinezza di Wagner.