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Associazione Wagneriana

IL LIBRETTO DEL PARSIFAL FRA RELIGIONE ED ECCLETTISMO (di Marco Polastri Menni)

Conferenza del 13.01.2015

  1. Considerazioni introduttive

Avevo accennato, nella mia prima conferenza dedicata a “Mito e religione nell’arte wagneriana”, alla linea di demarcazione concettuale fra religione e mito. Con l’occasione avevo lanciato, nell’oceano degli scritti su Wagner, una bottiglia con un messaggio: e cioè l’invito agli studiosi ad approfondire il tema che avevo soltanto delineato.

Poiché sinora tale invito non è stato ancora accolto, tenterò, facendomi coraggio data la difficoltà dell’impresa, di precisare (e di distinguere) in questa sede, le componenti religiose, da quelle che non lo sono, e che troviamo entrambe racchiuse nel libretto del Parsifal sperando di non trasformare la mia bottiglia in … fiasco.

Sul punto debbo ribadire la netta differenza fra mito e religione facendo giustizia dell’errato riferimento alla religione di tutti quei vari miti su cui si fonda il paganesimo sia greco-romano sia germanico. Ed infatti dette forme di paganesimo costituiscono una proiezione ancestrale dell’uomo primitivo che ha immaginato l’esistenza di una pluralità di esseri dotati di poteri superiori a quelli degli uomini ma anche delle passioni di questi ultimi. Richiamo qui gli esempi di Giove (per il paganesimo greco-romano) e di Wotan (per il paganesimo germanico) entrambi concepiti come immortali e dediti al sistematico adulterio nei confronti delle rispettive mogli (Giunone e Fricka).

In tale concezione a) difetta radicalmente qualsiasi cenno alla creazione dell’universo ed alla riferibilità di tale creazione ad una unica divinità superiore, mentre b) è presente l’astio (fzonos) degli dei verso gli uomini che intendono elevarsi (ubris) e l’esempio di Prometeo crudelmente punito è emblematico.

Per contro la religione deve essere intesa come verità rivelata da profeti che offrono l’immagine di un unico Dio onnipotente, creatore dell’universo, il quale, sempre a mezzo di profeti, ha indicato i principi morali che indicano la relazione fra creatore e creatura: in tale relazione è infatti racchiusa la stessa definizione di qualsiasi vera religione.

Sin dal II secolo a.C. l’affermazione di un unico Dio creatore che troviamo nell’antico testamento si è concettualmente saldata ad Alessandria d’Egitto con il risultato della speculazione filosofica di Platone e Aristotele che avevano anch’essi indicato l’esistenza di un Dio creatore dell’universo definendolo demiurgo. Ciò è tanto vero che i maggiori teologi del cristianesimo ed anche dell’Islam hanno sistematicamente sviluppato nei secoli successivi il loro pensiero con grande attenzione per quello di Platone e di Aristotele. Lo stesso S. Tommaso d’Aquino, vissuto nel XIII secolo, è giustamente considerato un neo-aristotelico.

Ed ancora, sulla correlazione fra religione e filosofia, ricordo che il principio della causa prima del creato viene giustamente ritenuto comune alla religione ed alla metafisica. Secondo la tracciata differenza fra miti pagani, da un lato, e religione, dall’altro, le vere e proprie religioni, che hanno avuto ampio seguito nella storia, sono l’ebraismo, il cristianesimo, l’Islam, il mazdeismo, presente nella Persia sino all’avvento dell’Islam, e l’induismo in tutte le sue varie ramificazioni. Non hanno invece avuto seguito nella storia, il credo religioso elaborato dal faraone Amenofi IV, più noto come Achenaton, e quello del filosofo Senofane. Per analizzare adeguatamente le vere componenti religiose del Parsifal, e per distinguerle da quelle che tali non sono, occorre ricordare gli ulteriori principi che caratterizzano le religioni e che sono stati elaborati all’interno di esse come corollario del principio fondante, sopra ricordato, di una divinità unica e creatrice di tutte le cose.

Ricordo la apocatastasi che indica la riconciliazione della creatura con il creatore e che ha avuto uno sviluppo presso gli scrittori cristiani (Origene, Gregorio Nisseno, Scoto Eriugena) maggiore rispetto ad altre religioni.

Ricordo altresì la soteriologia che è lo studio dei mezzi che consentono all’uomo di conseguire la salvezza. Sia l’apocatastasi sia la soteriologia sono comuni alle religioni giudaico-cristiane, al mazdeismo, all’induismo e all’Islam.

Quanto alla religione giudaico-cristiana essa si fonda sulla bibbia, è ricondotta ai 10 comandamenti e al purgatorio.

Quanto all’induismo, il cui testo fondamentale è la Upanisad, esso affronta e risolve anch’essa temi fondamentali che hanno da sempre assillato il pensiero dell’uomo e cioè l’origine del cosmo, il rapporto fra il creatore e la creatura e la salvezza dell’anima. Per l’induismo l’espiazione dei peccati che consente la salvezza si attua attraverso la reincarnazione caratterizzata dalla metempsicosi e cioè la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro nella sequela delle varie reincarnazioni.

Quanto al mazdeismo, esso si differenzia dalla tradizione giudaico-cristiana in ragione della sua componente manichea che colloca all’origine dell’universo il male ed il bene in una posizione originaria e paritetica. Il mazdeismo, di poi, afferma, in analogia con il cristianesimo, che alla fine della storia il bene prevarrà definitivamente sul male confermando, attraverso una visione analoga a quella del cristianesimo, che “le porte degli inferi non prevarranno”. Errava quindi Hegel quando nelle sue lezioni sulla storia della filosofia, definiva la filosofia e le religioni orientali, “cosiddette” rispetto a quelle “vere” date dal pensiero greco e occidentale.

Del tutto errata è anche la ricostruzione del mazdeismo che Nietsche ha inventato nel suo più noto libro “Così parlò Zarathustra” il quale rimane l’opera scritta nel miglior tedesco possibile e nel contempo l’opera culturalmente più disonesta che la storia ricordi. Nietsche non poteva infatti invocare il pensiero di Zaratustra, ritenuto il fondatore del mazdeismo, per confortare la propria tesi del superuomo e dell’eterno ritorno che con il mazdeismo nulla ha a che vedere.

In ordine poi ai collegamenti fra le religioni sopra ricordati, osservo che il cristianesimo si è incarnato nell’ebraismo perché Gesù era figlio di una donna ebrea, mentre si è manifestato con l’Epifania tramite il mazdeismo in quanto i magi venuti da oriente per adorarlo erano esponenti della classe colta di detta religione anche se nessuno tende a sottolinearlo. Quanto al rapporto fra cristianesimo ed islam ricordo che l’arcangelo Gabriele per i cristiani ha annunciato a Maria la gravidanza e per i mussulmani ha dettato il corano a Maometto.

Ho accennato qui brevemente a questi argomenti in quanto ricorrenti, come vedremo in seguito, nel libretto del Parsifal.

  1. Brevi cenni sull’origine del Parsifal.

Il mito del Parsifal, che nei poemi di Troyes e di Eschenbach era denominato Perceval, apparteneva, in origine, alla cultura celtica e non ad una religione monoteistica. Di origine celtica è infatti la sacralità della natura e che, come vedremo in seguito, anche Wagner riprende ma solo in parte del Parsifal.

Wagner tuttavia accoglie la modifica in Parsifal, suggerita da Gorres, del personaggio Perceval onde trasferire, in linea con la elaborazione di de Boron, in ambito cristiano una leggenda di origine pagana. Ed infatti nella lingua araba Parsifal (che viene da Wagner indicato come nativo in Arabia) significa “puro folle” proprio perché, in quanto tale, viene chiamato ad un’opera di redenzione. Incidentalmente si noti che i mazdeisti, sopravvissuti in una piccola comunità dopo l’avvento dell’Islam in Persia, hanno assunto il nome di Parsi proprio per indicare la purezza della fede da essi conservata dopo il prevalere dell’Islam.

Occorre al riguardo precisare il significato di folle che è la usuale traduzione italiana della seconda parte del nome di Parsifal. Se noi consideriamo la psicologia del personaggio, quale essi si snoda nel corso del dramma, notiamo che nella lingua italiana, e probabilmente anche in quella tedesca, non esiste un vocabolo che rende perfettamente l’idea del tipo di follia di cui sarebbe affetto Parsifal. Ed infatti i vocaboli “folle” in italiano, e “tor” nel tedesco usato da Wagner, non colgono la vera indole del personaggio. A mio avviso è assai felice la traduzione delle parole “parsi” e “fal” effettuata dagli studiosi francesi i quali hanno tradotto ed inteso Parsifal come “pure naif”. Definizione quest’ultima a mio avviso calzante proprio perché l’aggettivo francese “naif”, che non ha a mio avviso un equivalente fedele nella lingua italiana e nella lingua tedesca, coglie nel segno la natura del personaggio.

Giustamente Wagner adotta per il Parsifal una architettura drammaturgica assai semplice nelle sue linee come si conviene in una opera con forti connotati religiosi (il primo atto descrive infatti una tentazione peccaminosa realizzata in danno di Amfortas, il secondo atto descrive invece una tentazione fallita in danno di Parsifal, e il terzo atto descrive la redenzione verificatasi grazie alla condotta di Parsifal). Per contro nel Parsifal è estremamente elaborata- ricca di concetti spesso di ardua interpretazione e densa di componenti ecclettiche ed esoteriche- la narrazione dei singoli episodi del dramma. Tale complessità è tale che per alcuni anni la facoltà di filosofia dell’università di Firenze ha organizzato un intero corso accademico dedicato all’analisi del Parsifal

Il tema della redenzione, immanente nel Parsifal, dipende da un fatto pacifico: e cioè che Wagner, che era un grande peccatore, come talvolta accade proprio ai peccatori più incalliti, era ossessionato dal tema della redenzione (del resto presente in molte altre sue opere).

Raggiunta la vecchiaia, e dopo aver scartato l’ipotesi di un dramma intitolato “Gesù di Nazareth”, Wagner ripiegò sul Parsifal, da lui concepito molti anni primi e addirittura prima del Lohengrin, proprio perché la di lui leggenda, ampiamente rimaneggiata nel libretto, gli consentiva di inserire, in conformità a quanto da lui fatto in tutte le altre sue opere, il tema religioso della redenzione con una molteplicità di temi religiosi estranei al cristianesimo. Risultato quest’ultimo che a Wagner sarebbe stato impedito qualora avesse dato corso al suo originario progetto di musicare il Gesù di Nazareth: Wagner stesso dichiarò infatti di non poter concepire Gesù Cristo come un tenore che canta su un palcoscenico.

  1. Analisi dei brani più interessanti del dramma

Per maggiore chiarezza di esposizione illustrerò i temi culturali scaturenti dall’analisi del libretto seguendo l’ordine narrativo del libretto medesimo.

  1. Nel primo atto Wagner non indica, né la data nella quale ha inizio il dramma sacro, né il luogo ove esso si svolge, omettendo, così, di prender partito sulle diverse leggende che collocavano il Gral in luoghi e in tempi diversi tra loro. Decisione quest’ultima a mio avviso saggia in quanto il carattere mitico della figura di Parsifal mal si concilia con una rigorosa collocazione storica e temporale: sappiamo infatti che una delle definizioni più suggestive del mito è quella secondo cui, a suo tempo, non è mai avvenuto ma che nella storia si ripete sempre.

E’ quindi soltanto attraverso Lohengrin, figlio di Parsifal e presente ad Anversa nel secolo X al tempo dell’imperatore Enrico, che possiamo collocare le vicende di Parsifal un trentennio prima della comparsa di Lohengrin e localizzarle altresì nella Spagna del nord: i riferimenti al mondo arabo che il Parsifal contiene si giustifica con il fatto che gli arabi nel X secolo occupavano tutta la Spagna salvo quella prossima ai Pirenei.

Wagner invece indica con molta precisione, attraverso il racconto di Gurnemanz, l’origine dell’affidamento a Titurel, a mezzo degli angeli, delle due reliquie conformi alla tradizione cattolica e costituite dalla coppa del Gral recuperata da Giuseppe d’Arimatea e dalla lancia usata da Longino contro Gesù crocifisso, così come riferito nel Vangelo di San Giovanni. Wagner con ciò aderisce alla versione più tarda del Gral che in origine era inteso come un oggetto misterioso.

Wagner spiega che Klingsor, adirato dalla propria esclusione dal novero dei cavalieri del Gral, giurò di vendicarsi tanto da riuscire, tramite Kundry, a sedurre Amfortas, a privarlo della lancia e ad infliggergli una dolorosa e inguaribile ferita con la lancia stessa.

Subito dopo questa narrazione -che termina con l’annuncio dato da Gurnemanz secondo cui solo un “puro folle” potrà salvare la situazione compromessa dallo stesso Amfortas con la subita seduzione- entra in scena Parsifal. Questi si manifesta come responsabile di un’azione nefanda e cioè la uccisione di un cigno che Gurnemanz deplora come crimine commesso in una foresta sacra in danno di un animale protetto.

Ricordo che il cigno, secondo antiche tradizioni pagane, ivi compresa quella celtica, è una creatura essenzialmente celeste in quanto riveste la forma assunte da gran parte degli esseri di un altro mondo e che, per vari scopi, penetrano nel mondo terrestre e spesso trascinano una barca solare che guidano ed accompagnano nel viaggio sull’oceano celeste. Il cigno simboleggia dunque gli stati superiori dell’essere durante la loro liberazione ed il loro ritorno verso il principio supremo. Siamo così in presenza di un primo elemento non cristiano ed inserito nell’ambito di una leggenda cristiana.

Il cigno, considerato da Gurnemanz come animale sacro e inviolabile, diviene elemento importante nella trama nel Lohengrin che Wagner compose molto prima del Parsifal ma avendo, sin da allora, perfettamente presente lo schema dell’opera che avrebbe composto soltanto molti anni dopo. Ed infatti il cigno che accompagna Lohengrin ad Anversa, dove si svolge la omonima opera, cessa di essere un animale protetto e viene descritto con una funzione sostanzialmente analoga a quella della tradizione celtico-nordica più sopra ricordata.

Incidentalmente osservo che per comprendere che cosa accadde ai cavalieri del Gral, dopo la redenzione attuata da Parsifal alla fine del dramma, dobbiamo leggere le parole che Wagner scrisse nel Lohengrin allorquando questi, nel terzo atto dell’opera, narra dettagliatamente la missione di tutti i cavalieri del Gral in favore degli abitanti della terra che chiedono il loro aiuto.

Nonostante le empietà della uccisione del cigno, Gurnemanz si astiene dal castigare Parsifal in quanto colpito dalla sua totale ingenuità, e viene anzi indotto a metterlo alla prova. Parsifal a questo punto compie un primo atto di violenza tentando di strangolare Kundry senza una valida ragione.

Quest’ultima, resasi conto dello stato di Parsifal, gli porge da bere ricevendo l’elogio di Gurnemanz che commenta questo gesto con le parole “respinge il male chi con il bene lo compensa”. Con questa regola morale, unanimemente attribuita a Budda, Wagner inserisce un secondo elemento certo compatibile con il cristianesimo, ma formulato in ambito diverso.

Parsifal indi domanda non che “cosa sia” il Gral ma “chi sia” il Gral. In tal modo Wagner sottolinea la totale ingenuità del personaggio.

Importantissima è la risposta di Gurnemanz il quale afferma che il significato del Gral “non può essere svelato a chiunque ma soltanto a chi viene scelto per essere degno della sua conoscenza”. Giustamente è stato osservato che le parole che Wagner attribuisce a Gurnemanz sono analoghe a quelle usate da Balzac nel romanzo Seraphita. Questo autore svolge il pensiero di Swedenborg il quale, reinterpretando le Sacre Scritture, aveva trattato il tema della iniziazione a conoscenze precluse agli uomini comuni e riservate invece solo a pochi eletti.

Il pensiero di Swedenborg -ripreso da Balzac nel predetto romanzo e da Wagner nel Parsifal- si identifica con la cosiddetta teosofia che, secondo la accezione originaria, è la conoscenza sapienziale del divino grazie ad esiti mistici della speculazione religiosa, presente anche nella tradizione orientale, e riservata a pochi iniziati. Abbiamo a questo punto un terzo episodio di sincretismo in quanto Wagner inserisce nella leggenda della coppa serbata da Giuseppe d’Arimatea la teosofia di Swedenborg.

Occorre per compiutezza ricordare che, alla fine dell’800, alla teosofia è stato dato anche il diverso significato di tendenza ad individuare le analogie fra le varie religioni (e sono quelle più sopra ricordate). Ovviamente le risposte di Gurnemanz alle domande di Parsifal attiene alla teosofia elaborata da Swedenborg.

E’ difficile affermare che Wagner conoscesse il romanzo di Balzac, ancorchè scritto oltre 40 anni prima del Parsifal, ma l’ipotesi non è da escludere a priori. Ed infatti nel proprio immenso epistolario, Wagner cita Balzac tre volte, e, in una lettera, egli lo indica come autore raccomandabile, insieme con Goethe e Schiller, per la formazione del proprio figlio Sigfrid.

Subito dopo questo breve ma denso dialogo fra Parsifal e Gurnemanz, Wagner descrive un fatto straordinario: scompare la foresta ove si era svolta l’azione e si apre una porta fra pareti di roccia che conducono al castello del Gral. Gurnemanz commenta tale fatto dicendo “lo spazio qui diventa tempo!”.

E’ una frase che suscita grande impressione e, proprio per questo, è una delle più commentate di tutta la letteratura wagneriana.

Incidentalmente osservo che essa trova una embrionale anticipazione nella battuta che Shakespeare attribuisce ad Amleto nel finale I della tragedia: “il tempo è fuori sesto, che io non debba ricollocarlo a posto”. Il sestante infatti è un attrezzo usato nella marina per misurare le distanze e quindi l’indicazione del tempo fuori dal suo spazio richiama il principio enunciato da Wagner.

Alcuni autori hanno riferito la frase contenuta nel Parsifal “lo spazio qui diventa tempo” all’ambito musicale osservando che i tempi, nella musica, possono evocare una dimensione spaziale (aderendo così alla tesi del tempo/affresco di Bach). Altri autori, come Proust, hanno considerato la frase di Gurnemanz in senso letterario in ragione del fatto che, nel tempo, i personaggi possono risultare più lontani di prima.

In epoca recente il rapporto fra lo spazio e il tempo è stato ripreso da Zimerman nella sua opera “I soldati” nella quale l’autore crea la simultanea presenza di passato, presente e futuro che vengono, per così dire, ricomposti mediante più piani scenici.

Possiamo quindi concludere osservando che la frase di Wagner tra la anticipazione di Shakespeare e l’epigono di Zimerman ha interessato quattro secoli di cultura musicale, letteraria filosofica e scientifica: mi pare che non sia poco.

A ben guardare tuttavia non solo musicisti e scrittori si sono occupati della relazione fra lo spazio ed il tempo indicate nel Parsifal. Ed infatti, e ciò, nel riflettere sull’argomento, molto mi ha colpito, un grande filosofo (Bergson) ed un grande scienziato (Einstein) hanno messo in discussione l’opinione tradizionale secondo cui lo spazio e il tempo sono due realtà totalmente distinte (e che Kant aveva indicato come le due categorie che, unitamente al principio di causalità, caratterizzavano il potere conoscitivo della mente umana). Einstein in particolare ha effettuato la sua celebre e geniale analisi della nozione di simultaneità intesa come concezione relativistica del tempo e dello spazio e che pochi anni dopo avrebbe trovato espressione matematica nel continuo spazio-temporale a quattro dimensioni elaborato di Minkowski.

Se infatti, come affermato dai due autori più sopra ricordati, non è condivisibile una netta separazione fra i due concetti di spazio e di tempo, ne consegue che forse Wagner, avrebbe anticipato il loro pensiero mostrando così capacità intuitive a dir poco sorprendenti.

  1. Nel secondo atto appare di non chiara interpretazione la condotta di Parsifal, il quale, con l’intento di raggiungere le fanciulle e di giocare con loro, ferisce senza misericordia i custodi del castello di Klingsor che ostacolavano il suo ingresso.

Questo episodio non ha una spiegazione drammaturgica evidente: da un lato perché Parsifal, come redentore designato, compie atti di violenza incompatibili con la propria missione e, dall’altro, essendo Kundry incaricata dell’opera di seduzione, la necessità di inserire custodi del castello che impedivano il cammino di Parsifal non ha molto senso. Una possibile spiegazione può rinvenirsi nell’intento di descrivere il carattere infantile di Parsifal il quale peraltro finisce per apparire prossimo all’autismo giovanile (e che secondo gli studiosi di tale malattia alterna momenti di violenza a momenti di delicatezza). Tesi questa suffragata dal precedente atto di violenza con il quale Parsifal aveva tentato di strangolare Kundry.

Nel recupero della lancia, che è una reliquia cristiana, da parte di Parsifal si inserisce un quarto episodio non cristiano dato dalla rottura di un incantesimo: quello del castello di Klingsor.

  1. Nel terzo atto Wagner descrive le traversie che Parsifal aveva in precedenza vissuto. Tale narrazione costituisce una sorta di rivisitazione del principio religioso secondo cui il redentore è tale se esce indenne da certe prove (pensiamo alle tentazioni di Gesù nel deserto).

E’ importante ricordare che Parsifal afferma di non aver potuto ritornare subito nei pressi del Gral in quanto lotte e battaglie lo obbligarono fuori dal giusto sentiero, di essersi preoccupato di conservare la sacra lancia e di aver per questo ricevuto numerose ferite in quanto non gli era lecito servirsi della stessa durante le battaglie. Sulla rinuncia di Parsifal ad usare la lancia come arma ritornerò per concludere questa breve analisi.

A questo punto Wagner inserisce nel libretto il gesto di Kundry che con i propri capelli terge i piedi di Parsifal usando un prezioso balsamo.

L’intento di Wagner di ripetere l’episodio vangelico di Maddalena è di tutta evidenza. Subito dopo Wagner descrive in una didascalia, con un commento di Gurnemanz e con una delle sue pagine musicali più belle, il cosiddetto “incantesimo del venerdì santo” che gli era stato ispirato dalla fioritura del giardino di Zurigo di casa Wesendock e che Wagner riferisce di avere notato con stupita ammirazione il giorno di Venerdì Santo.

In realtà vi è una vistosa discrasia tra il venerdì santo evocato da Wagner, e che per la religione è un momento di raccoglimento sulla redenzione data dal sacrificio di Gesù, ed il risveglio della natura che, secondo le parole di Gurnemanz, esprimerebbe quella medesima redenzione. Dal punto di vista concettuale infatti non regge l’affermazione di Gurnemanz secondo cui la rugiada e la fioritura sarebbero una espressione della avvenuta redenzione dell’umanità. Siamo quindi di fronte ad un quinto episodio di sincretismo in quanto la pretesa religiosità del Venerdì Santo viene ricondotta a qualcosa che con il Venerdì Santo nulla ha a che vedere.

Wagner infatti, in tutte le sue opere che affrontano temi religiosi, aveva sempre modificato ed adattato alla propria vena poetica situazioni descritte nei libri sacri o nelle vite dei santi, ma mai ne aveva alterato la vera essenza in modo così vistoso.

Occorre a questo punto soffermarsi sul finale del dramma nel quale Parsifal con la punta della lancia da lui recuperata, tocca il fianco ferito di Amfortas e lo guarisce. Importantissime sono le di lui parole che accompagnano tale gesto: “soltanto un’arma vale: chiude la ferita soltanto la lancia che l’ha aperta”.

E’ questa una frase che imprime all’intero dramma un significato profondo e nello stesso tempo poliedrico.

A prima vista la guarigione della ferita di Amfortas effettuata con la stessa lancia che lo aveva ferito, può essere intesa come una metafora del seguente principio: la lancia posseduta dalle forze del male (cioè dal mago Klingsor) produce solo il male (nella specie una ferita inguaribile); la lancia posseduta dalle forze del bene (cioè dal redentore Parsifal) produce invece il bene (e cioè la guarigione da quella stessa ferita).

Ricordo che la lancia era già stata da Wagner descritta anche nella tetralogia come strumento che può essere usato a fin di bene oppure a fin di male. Infatti la lancia di Wotan spezza la spada di Sigmund onde ottenere il rispetto delle leggi runiche. La stessa lancia, di poi, viene usata per fermare Sigfrido dallo stesso Wotan il quale calpesta così la solenne promessa di consentire ad un eroe di raggiungere Brunilde: per tale ragione questa volta è la lancia a venire spezzata dalla spada.

Ma altro, ed ancor più importante significato, può essere attribuito alle parole di Parsifal più sopra ricordate. Proviamo a riflettere sulle seguenti circostanze.

Nel Parsifal la lancia è fattore decisivo dell’intero sviluppo del dramma in quanto, all’inizio viene indicata come reliquia donata dagli angeli a Titurel, indi come sommo bene perduto da Amfortas durante il suo peccato, ancora come arma che ferisce lo stesso Amfortas una volta posseduta da Klingsor, ed, infine recuperata da Parsifal, vittorioso nei confronti della tentazione subita, e da lui usata per guarire la ferita che la stessa lancia aveva provocato.

Se dunque la lancia, ancora più della coppa del Gral, viene concepita e descritta come realtà determinante lo snodo dell’intero dramma e come strumento di soluzione positiva di tutte le vicende narrate, è forse necessario attribuire ad essa un significato più profondo di quello del semplice strumento suscettivo di produrre il bene e il male a seconda del soggetto che la usa.

Al riguardo dobbiamo ricordare che la lancia di Longino che trafisse Gesù sulla croce è reliquia cristiana molto conosciuta in area tedesca e non Italia ove sono invece ben note la Sacra Sindone di Torino e il Chiodo della Corona Ferrea di Monza. Ed infatti la lancia anzidetta è stata per secoli custodita a Vienna e della stessa si impossessò Hitler, subito dopo l’Anschluss, del 1938 ritenendola strumento per ricostruire il grande impero di Federico II.

Sul punto desidero segnalare l’intervista recentemente rilasciata dal filosofo persiano Shayegan, uno dei più grandi esperti dei rapporti interreligiosi e studioso altresì della cultura occidentale. Detto filosofo sull’argomento ha testualmente dichiarato “è importante che avvengano scambi culturali e che si elaborino determinate identità fra religioni diverse. Ma questo non può farci dimenticare che il vero dialogo interreligioso è di natura metastorica, si svolge, cioè, nella dimensione in cui i grandi mistici si incontrano tra loro al di là di ogni distinzione temporale e linguistica. Ho sempre presente quel passaggio del Parsifal di Wagner in cui si afferma che la ferita può essere guarita solo dall’arma che l’ha provocata”. Tesi questa presente anche nel poema Peredur che è la versione celtica del mito parsifaliano.

Ritengo estremamente suggestive, per l’esegesi del Parsifal, queste riflessioni di Shayegan che dovrebbero insegnare molte cose a certe supponenti liquidazioni del problema della religione nel Parsifal da parte di certi critici europei i quali neppure sono stati sfiorati dal fondamentale argomento di cui sopra. Personalmente infatti ritengo che la lancia nel Parsifal, anche grazie al contributo del filosofo persiano, possa essere considerata come una delle metafore di più ampio respiro che la storia della letteratura ricordi e ciò proprio perché esprime una tesi religiosa metastorica. Sul tema delle metafore merita di essere ricordato il pensiero del filosofo tedesco Blumenberg il quale, dopo lunghi studi, ha affermato che la metafora non deve essere intesa come mera figura retorica ma come autonoma categoria interpretativa radicata negli strati più profondi di ogni cultura ed operante in gran parte della conoscenza umana.

Sulla guarigione della ferita di Amfortas da parte di Parsifal a mezzo della lancia, una ulteriore considerazione si impone. L’atto della guarigione è apparentemente riferibile al miracolo della dottrina cristiana consistente nella modifica attuata ad una legge di natura e, quasi sempre, descritta come guarigione non realizzabile con i mezzi offerti dalla scienza. Si pensi al miracolo del cieco nato e da tutti i miracoli analoghi compiuti da Gesù e dai Santi.

Se ci limitiamo a considerare che la ferita di Amfortas viene concepita come non guaribile (Wagner descrive tutti i tentativi in precedenza falliti) quello compiuto da Parsifal potrebbe ritenersi un vero miracolo. In realtà così non è in quanto il miracolo risulta certo fattuale ma il suo contesto è completamente estraneo alla tradizione cristiana.

Parsifal infatti non è uno dei santi riconosciuti dalla chiesa cattolica che possa fare un miracolo, la redenzione spirituale di Amfortas da lui affermata è anch’essa estranea al miracolo inteso come guarigione fisica. Infine il rituale, formalmente descritto come quello della Pentecoste mediante l’apparizione della colomba simbolo dello Spirito Santo, in realtà sottointende il tramandare a tutti i cavalieri presenti il potere di reincarnazione della loro anima ed esprime il ripristino della loro invincibilità in combattimento ai fini di giustizia.

Tutto ciò non può essere attribuito al pur descritto intervento dello Spirito Santo e si attaglia invece ad una caratteristica delle religioni orientali. Questo sesto intento sincretistico appare qui una forzatura in quanto la funzione apostolica viene da Wagner conservata in capo ai cavalieri ma viene piegato alla giustizia riparatrice e non invece alla diffusione della fede.

Di grande interesse resta comunque il commento effettuato dallo stesso Parsifal sul miracolo da lui compiuto con la lancia. Egli infatti, rivolgendosi ad Amfortas ormai guarito afferma: “sanato sii, purificato e assolto: benedetto sia il tuo dolore che la forza suprema della compassione e la potenza di un purissimo sapere donò ad un timido folle”. In queste parole è dato cogliere un settimo episodio di sincretismo in quanto Wagner accorpa ben tre componenti religiose: la redenzione cristiana, la compassione di Schopenhauer e la teosofia di Swedenborg.

Sul punto ricordo che fu lo stesso Wagner, a scrivere in una lettera, che il Parsifal è il dramma della compassione perché il risveglio della compassione si attua nell’uomo che, scorgendo gli errori dell’esistenza (provocati dalla volontà schopenhaueriana) si fa redentore.

  1. Riflessioni sul pensiero di alcuni critici

Vorrei ora considerare gli scritti che alcuni studiosi hanno dedicato al Parsifal. Mi limito a ricordarne tre di cui il primo per evidenziarne la disonestà, il secondo per riabilitarlo dall’ingiustizia di cui è stato vittima, ed il terzo, assai poco citato, per illustrare la suggestiva analisi da lui compiuta.

A) Il celebre saggio di Adorno, Versuch uber Wagner, è caratterizzato dall’idea di fondo secondo la quale l’universo creativo del grande musicista e librettista si risolverebbe in una semplice fantasmagoria. Secondo tale autore, nel Parsifal detta fantasmagoria viene trasferita in una sfera solo apparentemente sacrale.

Non meno sorprendente è l’affermazione di Adorno secondo cui la fantasmagoria wagneriana de “Il giardino incantato” di Klingsor nel II atto ricorda “Il bordello dei sogni” per cui Wagner, divenuto espressione di una totale decadenza, non usa più il flauto di Dioniso ma quello di Hamelin, il noto pifferaio magico che catturava i topi e che in Wagner diventano gli spettatori delle sue opere.

Ancora afferma Adorno che nelle opere di Wagner sarebbe impossibile ravvisare un disegno artistico unitario in quanto sono divenuti popolari, e vengono eseguiti separatamente, molti brani tra i quali “l’incantesimo del Venerdì Santo” del III atto, il che dimostrerebbe che la scissione in frammenti esprime la frammentabilità della pretesa unità.

Sul punto mi limito a ricordare che la separata esecuzione della Leonora n. 3 non vale certo a provare che il Fidelio sarebbe una opera priva di unità.

Adorno inoltre altera la realtà del libretto affermando che Wagner riserva il tema della sofferenza, tanto caro a Schopenhauer, soltanto ad un animale e cioè il cigno ucciso da Parsifal dimenticando la descrizione della sofferenza di Amfortas presente in tutta l’opera.

Adorno, infine, occupandosi soltanto dei pretesi effetti prodotti sulle masse dalla musica, incolpa Wagner di addormentare la coscienza dell’ascoltatore distogliendolo da quello che sarebbe l’unico problema e cioè quello della contrapposizione fra capitale e lavoro.

Forse Adorno con tali sue affermazioni dimentica che le masse proletarie non potevano essere drogate dalle opere di Wagner per il semplice fatto che non andavano mai a vederle in quanto, di fatto, le loro possibili oasi di svago erano di ben altra natura.

Non credo più possibile attribuire allo scritto di Adorno su Wagner il titolo di saggio critico bensì quello di libello, di “pamphlet” dettato dall’odio palese per il grande musicista. Sconcerta quindi che Adorno abbia avuto dei seguaci che ritengono la sua indagine su Wagner come una delle più importanti degli ultimi decenni.

B) Il pensiero di Nietsche –sistematicamente riportato come avverso al Parsifal per l’avvenuto accostamento di Wagner al cristianesimo- deve essere qui riconsiderato. Infatti gli autori che riferiscono tale avversione riportano una mezza verità che, come è noto, si risolve in una bugia intera. Nietsche infatti dichiarò in alcune lettere che dal “punto di vista estetico Wagner non compose nulla di meglio del Parsifal per la sublimità del sentimento che fa a Wagner il più alto onore. Qualcosa di ciò è in Dante e non altrove. Non posso pensare al preludio del Parsifal senza esserne violentemente scosso tanto ne fui elevato e profondamente commosso”.

Risulta così che Nietsche era più saggio come critico d’arte che come filosofo (ricordo al riguardo anche la sua manipolazione sul pensiero di Zarathustra e quindi del mazdeismo). Ed infatti nessuno può disprezzare l’Amleto di Shakespeare solo perché non crede ai fantasmi, nessuno può disprezzare l’Iliade di Omero solo perché non crede agli dei pagani, nessuno può disprezzare Dante perché non crede che l’universo sia quello da lui descritto nella Divina Commedia. Ed infatti, sin dall’antichità, la verità dell’arte e la verità della conoscenza erano cose diverse: così affermò Aristotele ed i filosofi venuti dopo di lui (e questo Nietsche, data la sua cultura classica, avrebbe dovuto capirlo sin dall’inizio).

C) Così brevemente chiarito il pensiero di autori che si sono occupati di Wagner in senso totalmente o parzialmente negativo, desidero, accennare ad alcune interessanti osservazioni di Claudel autore di uno degli ultimi veri drammi sacri della letteratura e di un importante saggio su Wagner.

Claudel dopo aver affermato che quelli della sua generazione hanno Wagner nel midollo, a) riconosce che Wagner fu un grande drammaturgo; b) riconosce che Wagner fu artista di grande efficacia per la potenza dell’emozione che suscita; c) riconosce infine che Wagner con il Parsifal fu certo creatore di un dramma di redenzione ma fu fuorviato a metà strada del percorso spirituale. Claudel infatti aveva una sua precisa idea: il dramma dell’uomo è il dramma della carne che lotta contro lo spirito (il che è proprio il tormento della redenzione che ha caratterizzato molta dell’attività creativa di Wagner). Poiché tuttavia il grande musicista aggiunse nel Parsifal molti elementi eterogeni, ciò spiega quella che Claudel definì “la deviazione dal percorso”.

Claudel tuttavia finì per mitigare questa affermazione in quanto concepì il teatro come liturgia partecipativa da parte del pubblico alla sua interpretazione ed aggiunse che “così come il creatore si stacca dalla creatura lasciando agli uomini solo impulsi utili, anche il drammaturgo deve ad un certo punto ritirarsi dal suo dramma e lasciare spazio allo spettatore”. Tale metafora possiamo porla a confronto con quella di Sant’Agostino il quale affermò “la presenza non inquietante ma benevola di uno spettatore silenzioso che, dopo aver creato l’universo e dopo averlo affidato all’uomo, ha voluto riservare a sé stesso, occultandolo all’uomo, il momento della sua fine”.

E’ chiaro che tali autori, dopo aver paragonato al creatore dell’universo il creatore del dramma, divergono nella conclusione: mentre Sant’Agostino enunciò che il divino creatore si riservò di stabilire il momento della fine del dramma (che è il dramma scritto dall’umanità con la storia) Claudel disse che il drammaturgo creatore deve indicare i temi del dramma per lasciare allo spettatore di intenderne il significato.

Siamo in presenza di affermazioni di grande potenza, tali da far pensare, e sulle quali ritornerò al termine delle presenti riflessioni.

  1. Considerazioni personali.

Dopo la evocazione dei fatti drammaturgicamente più rilevanti, e dopo la indicazione delle opinioni di alcuni studiosi, vorrei offrire alcune conclusioni personali sul significato letterario del Parsifal, pur non nascondendomi la difficoltà del mio tentativo in ragione della estrema complessità del dramma.

In primo luogo il sottotitolo indicato da Wagner sul libretto di Parsifal e cioè “dramma mistico” non risponde alla realtà del contenuto.

Il libretto del Parsifal non è infatti una rivisitazione ottocentesca di quelle che invece debbono ritenersi vere e proprie tragedie sacre e che sono, per citare gli esempi più noti, gli “autos de sacramento” di Calderon de la Barca e le tragedie che Jean Racine scrisse come testuale sviluppo di episodi biblici. La stessa analisi del libretto più sopra effettuata evidenzia un carattere così poliedrico del testo da rendere “a priori” inaccettabile la definizione data da Wagner alla propria opera.

Pertanto non può dirsi, come ha invece ritenuto Boulez, che il Parsifal di Wagner sia una sopravvivenza ritardata del medioevo nel panorama letterario di fine 800.

Ed infatti allo stesso modo che drammaturgi moderni come D’Annunzio riprendono (si consideri la Fedra) gli argomenti del mito classico rivisitandoli e rinnovandoli con la loro arte, lo stesso possiamo dire per il Parsifal. Quivi infatti Wagner ripropone certo un mito antico ma lo riplasma con una quantità di elementi culturali addirittura anticipatori della scienza e della filosofia post-wagneriana (ricordo il pensiero di Bergson e Einstein a proposito dei temi metafisici sottesi alle citatissime parole di Gurnemanz “lo spazio diventa tempo”).

In secondo luogo il Parsifal di Wagner non è l’opera dedicata al Gral, come reliquia riconducibile a Giuseppe D’Arimatea e come invece comunemente si crede: il Gral esplica solo una breve presenza nella seconda parte del primo atto e nell’ultima parte del terzo senza peraltro movimentare le vicende del dramma.

In terzo luogo il vero protagonista del dramma è la lancia in quanto tale reliquia è in realtà al centro del dramma e ne è, nel contempo, sia il motore di tutti i fatti descritti sia il risolutore del dramma stesso.

E’ infatti evidente che tutta l’azione prende le mosse dal recupero della lancia di cui Klingsor si era impadronito e conclude il dramma stesso mediante la guarigione della inguaribile ferita riportata da Amfortas ad opera della lancia stessa.

In quarto luogo il personaggio di Parsifal, anche se offre il titolo del dramma, risulta, tutto sommato, assai debole dal punto di vista drammaturgico. Egli appare, sino all’ultimo, un soggetto inconsapevole di essere predestinato al grande compito affidatogli e, del resto, il suo comportamento non è quello di autentico innocente idoneo a realizzare la redenzione di Amfortas e della istituzione cavalleresca. Ed infatti l’uccisione del cigno, e la strage dei custodi del castello di Klingsor, esprime, più che l’indole di un innocente, quella di un ansioso violento alla ricerca di qualcosa di estraneo alla redenzione. Parsifal, in altri termini, è presentato più come il redentore agognato da Gurnemanz e da Amfortas che come redentore vero, per cui il centro del dramma si sposta su queste persone, piuttosto che sullo stesso Parsifal.

E’ certo vero che il puro folle costituisce un retaggio della cultura cristiana ma un siffatto personaggio è stato creato con ben altra coerenza e con ben altra convincente psicologia, da Dostojevski con il romanzo l’Idiota. Spesso infatti l’agire di Parsifal, da un lato, non è convincente, e, dall’altro, risulta passivo in quanto guidato da una occulta presenza della grazia.

Invero il personaggio drammaticamente più forte, insieme con Kundry è Amfortas il quale è efficacemente descritto come l’individuo tormentato dal problema della redenzione tanto caro a Wagner e che giustamente Ildebrando Pizzetti ha finito per indicare come il protagonista del Parsifal perché la di lui redenzione è in fondo l’agognata redenzione dello stesso Wagner.

In quinto luogo vorrei ricordare che lo sforzo nel quale Wagner si è impegnato, oltre a quello della redenzione, è quello del sincretismo presente negli episodi sopra ricordati e che è la sintesi di dottrine religiose e filosofiche diverse.

Sul punto occorre ricordare che il sincretismo è stato oggetto di studio assai dopo la morte di Wagner il quale, grazie al Parsifal, nei divenne un precursore.

Ed infatti il sincretismo è, per così dire, venuto alla ribalta solo agli inizi del ‘900 allorquando gli scambi culturali con l’Oriente si intensificarono. In ordine a tale movimento prese ben presto posizione la Chiesa Cattolica respingendo il tentativo di sintesi delle religioni ma affermando il proprio pieno favore per la collaborazione interreligiosa che si legge nel rapporto finale dell’assemblea tenutasi in Vaticano nel 1999. In ciò possiamo rinvenire il secondo modo di intendere la teosofia che ho prima ricordato.

Del resto la utilità di un costruttivo confronto del contenuto delle religioni emerge da una constatazione, ricavabile anche dal Parsifal, secondo la quale certe idee filosofiche e religiose non finiscono mai: fanno giri immensi e poi ritornano. Pensiamo all’intuizione platonica del mito della caverna secondo cui il mondo nel quale viviamo è un’ombra fallace della vera realtà: intuizione questa fondamentale nell’induismo incentrato sul concetto di maya (illusione) e che ricompare nel dubbio iperbolico cartesiano e nel mondo come rappresentazione di Schopenhauer.

  1. Considerazioni conclusive

A questo punto, dopo aver accennato al pensiero altrui, dopo aver indicato che cosa il Parsifal non è, mi sono posto il problema di individuare quale sia il vero significato del dramma in quanto tale (e quindi escludendo ogni indicazione sulla musica che resta ineguagliabile).

Due soluzioni assai diverse fra loro si sono affacciate alla mia mente.

A)
Secondo la prima non può negarsi che il sincretismo trattato nel dramma sia un tema di alto impegno culturale. Tale tema tuttavia, proprio per la sua indole, risulta non adatto ad essere affrontato in un dramma ma soltanto in un saggio. Nel Parsifal vi è cioè una discrasia fra il mezzo (e cioè il dramma) e l’argomento (che è squisitamente filosofico e religioso). In ragione di ciò il Parsifal rimane certo molto interessante culturalmente ma meno convincente sul piano drammaturgico.

In ordine poi all’altro grande tema del Parsifal, quello della redenzione, essa è presentata mediante la combinazione di valori troppo diversi che finiscono per rendere spuria la redenzione stessa.

Ed infatti –accanto alle componenti cristiane delle reliquie, dell’eucarestia e dei miracoli- evidenti nel Parsifal temi religiosi e filosofici non cristiani e cioè a) la anomalia della discesa dello Spirito Santo che restituisce ai cavalieri la invincibilità in combattimento in luogo della capacità di diffondere il vangelo b) la compassione che Schopenhauer aveva sviluppato filosoficamente in linea con i testi sacri delle religioni orientali; c) la conoscenza religiosa in adesione alla teosofia elaborata da Swedenborg e ripresa da Balzac; d) la regalità dei capi del Gral (e cioè di Titurel, di Amfortas e di Parsifal) che riprende il tema della sacra regalità di epoca precristiana assai più di quello degli ordini cavallereschi di ispirazione cristiana; e) la metempsicosi, di chiara impronta induista, e che è presente anche nella vicenda di Kundry.

In altri termini la commistione, se non addirittura la confusione, di valori tanto eterogenei risulta elevata a dogma e con ciò la ambiguità del sacro è considerata come principio e fine della metafisica dell’arte.

In altri termini Wagner, dopo aver fondato il dramma su elementi eterogenei di religione e di filosofia, costruisce su di essi la sua grande arte musicale. In tal modo Wagner, forse senza volerlo, ha finito per ribaltare la suprema triade Hageliana –e cioè arte e religione, in rapporto di tesi e antitesi, che trovano la loro sintesi nella filosofia- ponendo l’arte (e cioè la sua musica) come sintesi della religione e della filosofia. Tale costruzione non è accettabile perchè l’arte, essendo la scienza del bello, non può essere la sintesi fra religione e filosofia.

In ragione di ciò, e ad onta del sottotitolo “dramma sacro” attribuito da Wagner al Parsifal, la vera opera wagneriana dedicata alla redenzione cristiana è il Tannhauser che, con la proclamazione della santità della protagonista Elisabetta e, con la trasformazione del bastone in albero fiorito, descrive un vero miracolo in linea con la cultura cristiana che attribuisce la santità solo in ragione del compimento di un miracolo.

B) Secondo invece la seconda possibile interpretazione che mi sono prefigurato potremmo innanzitutto ritenere che il Parsifal non racchiude l’intento di accorpare forzatamente principi che nella storia sono ben distinti, ma, semplicemente di presentarli come un affresco storico/culturale. Wagner, nel finale dell’opera, esce da questa presentazione storica, e, affermando che “chiude la ferita soltanto l’arma che l’ha aperta, ci offre con una straordinaria metafora il principio per cui il rapporto interreligioso (che è certo conflittuale nella storia) si risolverà in chiave metastorica nella quale i grandi mistici si incontreranno al di là di ogni distinzione temporale e linguistica. Sviluppando a questo punto, con una mia idea personale il pensiero di Shayegan oserei dire che la lancia è il simbolo della religione che quando è usata come strumento di potere crea disastrose ferite all’umanità in quanto tradisce la sua funzione salvifica. Era quindi nel vero Wagner quando, dopo aver premesso che a Parsifal non era lecito usare la lancia nei combattimenti affrontati, ha affermato, con la straordinaria metafora della lancia, che le ferite provocate dalla religione usata per il potere possono essere sanate solo mediante l’uso proprio della religione quale cordone ombelicale fra il creatore e la creatura.

Nell’ottica di tale seconda interpretazione certe pur evidenti forzature sincretistiche non debbono intendersi come una sorta di “eresia” ma come una espressione poetica, che a Wagner artista occorre concedere, così come dobbiamo concedere a Dante il suo viaggio nell’inferno: e ciò in ragione del fatto, che ho già ricordato, e secondo cui il valore dell’opera d’arte prescinde dalle verità religiose o scientifiche racchiuse nell’opera stessa.

In questa prospettiva dovremo pertanto attribuire a Wagner il merito di essere stato forse l’unico ad aver espresso in forma artistica, non già il sincretismo nella storia, ma, al contrario, il superamento metastorico della diversità delle religioni.

Non voglio dire a quale delle due accennate interpretazioni ho finito per aderire. Preferisco ricordare il seguente pensiero di Claudel che si intendeva di religione perché era credente, si intendeva di Wagner perché lo aveva nel midollo, e, si intendeva di drammaturgia perché grazie ai suoi drammi era accademico di Francia: “il dramma è una liturgia partecipativa all’interno della quale il pubblico concorre alla elaborazione del suo significato”.

 

BIBLIOGRAFIA

1) Giordano Berti “Le religioni orientali in occidente”

2) Mario Bortolotto “Wagner l’oscuro”

3) Ernest Newman “Wagner Nights”

4) Timothee Picard “Dictionaire Encyclopedique Wagner”

5) Rubens Tedeschi “Invito all’ascolto di Wagner”

6) Baeumler Creuzer Bachofen “Dal simbolo al mito”

7) Arthur Schopenhauer “Il mondo come volontà e rappresentazione”

8) Piccola enciclopedia Treccani voce “Zoroastrismo”

9) Theodor Adorno Versuch “Uber Wagner”

10) Roberto Radice Alfredo Valvo “Dal logos dei greci al logos di Dio”

11) Enrico Fubini “L’estetica musicale dal ‘700 ad oggi”

12) Agostino Ziino “Wagner in Italia”

13) Honore de Balzac “Seraphita”

14) Friedrich Nietzche “Così parlò Zarathustra”

15) Paul Claudel “Richard Wagner reverie d’un poete francais”

16) Zimerman “I soldati”

17) Jorge Luis Borges “Cos’è il Buddismo”

18) J. Combarieu “Histoire de la musique tomo III”