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Associazione Wagneriana

Mito e religione nell’arte wagneriana (di Marco Polastri Menni)

(Da una conferenza tenuta per l’Associazione Wagneriana di Milano il 2 ottobre 2012)

Dovendo analizzare la presenza del mito e della religione nell’arte wagneriana, appare preliminarmente necessario chiarire che cosa sia la religione e che cosa sia il mito. Tale distinzione non è affatto ovvia, in quanto il mito e la mitologia vengono sovente impropriamente definiti come religione pagana contrapposta alle religioni monoteiste ebraica, cristiana e musulmana. Il pericolo della confusione fra mito e religione deve invece essere assolutamente evitato.

Come insegnava Aristotele, l’uso di una stessa parola per indicare concetti diversi dà luogo ad una sottospecie del sofisma e trae in inganno. Non essendo né un teologo né uno studioso del mito, ma semplicemente un appassionato di Wagner che tanto ha dedicato a questi argomenti, cercherò di offrire la corretta definizione di tali concetti onde analizzare ciò che in Wagner è religioso e ciò che invece è mitologico. Al riguardo mi atterrò rigorosamente alle fonti in base all’insegnamento di Jacob Burckhardt, astenendomi quindi dalla tendenza, purtroppo diffusa, di manipolare le fonti onde adattarle alla ideologia di chi pretende di studiarle.

Le antiche mitologie costituivano delle proiezioni mentali dell’homo sapiens il quale, raggiunta la soglia della civiltà, tende ad immaginare l’esistenza di soggetti aventi desideri simili ai propri ma dotati di caratteristiche soprannaturali quali l’immortalità, e di poteri straordinari dei quali gli uomini sono invece privi. Questi infatti sono gli attributi che tanto gli antichi greci quanto agli antichi germani attribuivano alle divinità, da loro concepite in modo simile, sia pure dando loro nomi diversi. Il mito (che in greco significa favola) è dunque una favola ancestrale. Se infatti prendiamo in considerazione il mito greco  e il mito germanico noteremo proprio questo fatto singolare, e cioè che le due civiltà greca e germanica, pur non avendo avuto alcun contatto fra di loro, hanno concepito miti fortemente analoghi. Notiamo infatti che queste mitiche divinità sono comuni (Giove degli antichi greci è in tutto simile a Wotan degli antichi germani): essi inoltre sono entrambi a capo di una sorta di famiglia di dei ed hanno in comune non solo l’immortalità ed i poteri straordinari, ma anche gli stessi vizi degli uomini. Giove e Wotan sono infatti impenitenti adulteri nei confronti delle rispettive mogli Giunone e Fricka. La letteratura greca annovera invero numerosi episodi in cui Giove si trasformava nel modo più svariato per sedurre fanciulle mortali, dalle quali aveva numerosi figli. Analogamente Wotan, marito di Fricka, ha avuto numerosi figli illegittimi, e fra questi Sigmund, Sigfrido e le nove Valchirie.

Ci si deve a questo punto chiedere come mai sussista questa identità nel contenuto delle mitologie di due culture che non sono entrate in contatto, e quindi non potevano comunicare il loro pensiero. La spiegazione è a mio avviso agevole proprio perché il mito non si fonda su una rivelazione del soprannaturale in una determinata civiltà, bensì sulla comune tendenza dell’uomo primitivo ad attribuire agli dei sia quelle qualità alle quali egli aspira e che non possiede (immortalità e poteri sovrannaturali), sia quei vizi che l’uomo invece possiede. Tutto al contrario, la religione monoteista si fonda sulla rivelazione effettuata da un Dio onnipotente e perfetto il quale, dopo avere affermato a mezzo dei profeti di avere creato l’universo dal nulla (si vedano le prime pagine del Genesi), afferma che l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza, risponde a un determinato progetto del creatore. Ciò comporta che il fondamento della religione debba essere ravvisato nella creazione, che fonda una relazione tra il creatore e la creatura, rimanendo i principi morali che scaturiscono da tale relazione come un corollario della relazione anzidetta, e che viene diversamente interpretato nelle tre religioni monoteiste.

In questa prospettiva i grandi profeti del monoteismo (Mosè, Gesù e Maometto) risultano coloro che hanno interpretato diversamente la relazione fra creatore e creatura, e quindi i princìpi morali ai quali deve attenersi quest’ultima. Ciascuno quindi degli aderenti alle tre religioni monoteiste, ebrei, cristiani e maomettani, ha ritenuto gli altri infedeli perché non hanno accettato il profeta al quale hanno accordato la loro preferenza. Tutto ciò non elide. anzi conferma, il principio fondante della religione monoteista, e cioè che Dio, creatore dal nulla dell’universo, ha dedicato all’uomo un progetto il cui rispetto dà luogo ai principi morali. Questi ultimi costituiscono la conseguenza del principio metafisico secondo il quale l’uomo e la natura non si sono creati da soli ma sono stati creati da un essere superiore. Ritengo a questo punto che la differenza fra mito e religione risulti chiara. Nel paganesimo non vi è alcuna spiegazione sulla creazione del mondo, non si afferma che la morale discende dalla soluzione di un problema metafisico, non si immagina un unico Dio perfetto ma, al contrario, si ravvisano più divinità dotate di poteri sovraumani ma anche di tutti i vizi propri degli uomini. Mancando di un denominatore comune, mito e religione risultano totalmente diversi. A riprova di quanto sopra mi siano consentite le tre seguenti ulteriori osservazioni.

Prima osservazione. Nel II secolo a.c. gli ebrei cominciarono a spandersi al di fuori dei loro confini e si insediarono in Egitto, territorio integralmente ellenizzato, ove la lingua greca era l’unica ad essere diffusa. Ciò era avvenuto in ragione delle conquiste di Alessandro Magno (si pensi al massimo tempio della cultura greca costituito dalla biblioteca di Alessandria d’Egitto, dove era raccolto tutto quanto scritto da poeti, filosofi e tragediografi greci). Fu così decisa la traduzione della Bibbia dall’ebraico al greco (la cosiddetta “traduzione dei settanta”), in quanto gli ebrei, di seconda e terza generazione, emigrati in territori ellenizzati, conoscevano meglio questa lingua.   In ragione di ciò si verificò il contatto della civiltà ebraica ispirata dalla Bibbia con la filosofia greca di Platone e di Aristotele. Entrambi tali civiltà, venute così in contatto, verificarono che il messaggio biblico, incentrato sull’esistenza di un unico Dio creatore, coincideva con quello affermato nella metafisica di tali grandi filosofi, incentrata sul logos inteso come spirito creatore. Ciò è tanto vero che la cultura monoteistica ed ellenizzata coniò il termine kerygma per indicare il logos oggetto della rivelazione divina, mentre illogos di Platone e di Aristotele continuava a rimanere il frutto della speculazione metafisica. Fu dunque questa identità di valori fondamentali a favorire la diffusione dell’ebraismo dapprima e del cristianesimo di poi, nel mondo allora conosciuto, e ciò proprio in quanto il messaggio biblico si adeguava alla cultura filosofica diffusa. La spiegazione di detta diffusione in base al solo fatto politico (l’unità territoriale dell’impero di Alessandro Magno dapprima, e di quello romano di poi), non è esaustiva, in quanto detta unità politica non sarebbe bastata, necessitando anche del supporto culturale anzidetto. Il paganesimo, fondato sulla mitologia, venne in tal modo progressivamente soppiantato dalla religione monoteista. Sull’argomento merita di essere ricordato che la persecuzione delle religioni monoteistiche nei primi secoli dell’impero romano dipese non già dalla convinzione che davvero esistessero gli dei pagani, ma dal fatto che il monoteismo ebraico/cristiano, per il suo contenuto etico, disturbava il potere costituito.  L’imperatore Diocleziano, in altri termini, perseguitò il cristianesimo non perché fosse convinto che esistessero Giove, Giunone e Minerva, ma perché temeva che la religione monoteista minasse le fondamenta dell’impero (le quali erano invece minacciate da una crisi di tutt’altra natura).

Seconda osservazione. La elaborazione del mito da parte dell’ homo sapiens appare connessa con la psicanalisi, intesa da Freud come scienza dell’inconscio psichico.  Ciò è tanto vero, che lo stesso Freud, nello studiare la attrazione patologica del figlio verso la madre con contestuale astio verso il padre, e nello studiare l’attrazione patologica della figlia verso il padre con contestuale astio verso la madre, non ritenne, come era normale in quell’epoca di progresso della scienza, di coniare un neologismo (come invece era accaduto, ad esempio, per l’altra malattia della psiche indicata da Bleuler come autismo). Al contrario Freud ha definito le anzidette patologie come complesso di Edipo(che uccise il padre e sposò la madre) e complesso di Elettra (che venerava il padre e fece assassinare la madre). Alla luce della radicale differenza fra mito e religione sopra delineata, appare evidente l’errore di chi, come Feuerbach, ha creduto di equiparare il mito alla religione. Movendo dalla premessa che anche nelle religioni politeiste, anteriori al monoteismo, l’uomo attribuiva alle divinità qualità superiori alle proprie, e constatando che i limiti dell’uomo sono più angusti delle proprie aspirazioni, Feuerbach giungeva ad affermare che tanto gli attributi degli dei pagani quanto quelli del Dio unico sono tutti il frutto di una aspirazione mentale dell’uomo. In base a ciò Feuerbach concludeva che sia gli dei politeisti sia il Dio unico non esistono affatto (se non nella mente dell’uomo che li ha immaginati). Senonché, e qui sta l’errore di Feuerbach, ciò che impedisce di equiparare il politeismo al monoteismo è il fatto che soltanto gli attributi degli dei politeisti riflettono l’aspirazione dell’uomo a possedere certe qualità che a lui mancano. Al contrario il Dio monoteista della Bibbia ed il logos della filosofia greca si fondano sul principio metafisico (totalmente estraneo alla favola ancestrale elaborata dall’ homo sapiens), secondo cui non creandosi la materia da sola, occorre concludere che qualcuno l’abbia creata e che questo qualcuno sia un Dio onnipotente. Soltanto in esito a questo principio filosofico si giunge poi ad affermare che, esistendo un creatore che ha creato l’uomo in base ad un preciso disegno, l’uomo, quale creatura, deve rispettare le regole a lui indicate dal creatore.

Terza osservazione. Nella mitologia, al centro della relazione fra l’uomo e gli dei politeisti stanno due princìpi confliggenti. Il primo principio è costituito dall’ubris, riconducibile a quel moto dell’orgoglio degli uomini che tendono ad elevarsi, e che risulta tale da offendere gli dei. Ricordiamo sul punto, in via di esempio, il mito di Prometeo che, avendo rubato agli dei la scintilla del fuoco onde beneficare con essa l’umanità, venne condannato dagli dei ad avere il fegato divorato da un’aquila. Il secondo principio è costituito dallo fzonos, e cioè dall’invidia degli dei verso la felicità e le aspirazioni ascendenti degli uomini. Questi due principi confliggenti evidenziano una relazione fortemente pessimistica della vita, in quanto non aprono il pensiero umano ad alcuna speranza ma solo ad una ininterrotta catena di contrasti fra l’uomo e il divino, che non si risolve se non nella perpetuazione delle disgrazie dell’umanità. Ciò è ravvisabile non solo nel mito ma anche nella tragedia. Ricordiamo il divieto degli dei di consentire la partenza delle navi greche se non in esito al sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone, comandante della flotta greca. Il sacrificio di Ifigenia compiuto da Agamennone causa il di lui assassinio ad opera della moglie Clitennestra, e tale delitto genera a sua volta l’uccisione di Clitennestra, voluta dalla figlia Elettra, con l’aiuto del fratello Oreste, il quale, a sua volta, termina male i suoi giorni in quanto reo di matricidio. E’ evidente che la sequela delle vendette e degli omicidi senza perdono e senza redenzione esprime il sentimento del tragico, cioè il dramma senza speranza. Per contro la visione monoteista della vita, pur non essendo affatto ottimista, è drammatica ma non è tragica, in quanto apre la speranza al rimedio ultraterreno per tutti i mali che affliggono la vita di questo mondo. E questo, come ricordato più sopra, comportò la fine del politeismo e l’affermazione della religione monoteista. Naturalmente la adesione alla religione monoteista, ed al cristianesimo in particolare, non fu istantanea dopo il suo riconoscimento da parte dell’imperatore Costantino, e molte credenze pagane sopravvissero per alcuni secoli. Sul punto ricordiamo l’interessante volume di Gaston Brissier La fine del paganesimo, nel quale detto autore ha delineato la relazione fra il cristianesimo ormai diffuso ed il permanere sia di credenze pagane sia di tutta la cultura greco-romana anteriore al cristianesimo stesso. Su tale argomento ritornerò qui di seguito a proposito del Vascello fantasma e del Lohengrin. Così impostata quella che, a mio avviso, è la corretta distinzione fra mito e religione, consideriamo le opere di Wagner in questa chiave di lettura.

Al riguardo, dobbiamo escludere dalla nostra indagine le tre opere giovanili di Wagner che non sono affatto wagneriane in senso proprio, in quanto imitazioni, ancorché di ottima fattura, dei modelli di Karl Maria Von Weber (per Le fate) di Vincenzo Bellini (per Il Divieto di amare) e di Meyerber (per il Rienzi). Le opere “wagneriane” di Wagner, mi sia concesso il bisticcio di parole, iniziano con Il Vascello fantasma e terminano con Il Parsifal. Dobbiamo espungere da queste dieci opere Tristano e Isotta e I Maestri Cantori di Norimberga, in quanto opere sostanzialmente estranee al mito e alla religione, di cui dobbiamo invece occuparci. Ed infatti I Maestri Cantori sono un omaggio di Wagner alle corporazioni germaniche, mentre Tristano e Isotta, per la sua straordinaria complessità e bellezza, non è riconducibile ai temi qui trattati. Rimangono dunque otto opere, che non è difficile classificare in questo senso: quattro con una forte connotazione religiosa (Vascello fantasma, TannhäuserLohengrin e Parsifal) e quattro (cioè quelle della Tetralogia) sicuramente riferibili alla mitologia, atteso che i protagonisti sono uomini e dei (come, del resto, nell’Iliade). Fatta questa necessaria premessa, il profilo più interessante dell’indagine non è quello della semplice descrizione degli argomenti religiosi e degli argomenti mitici, bensì quello dell’analisi del modo con cui Wagner interpreta, esprime, ed eventualmente modifica, temi concettualmente religiosi e temi concettualmente mitologici. Ed infatti non dispero che da tale angolazione possa emergere la fantasia creativa con cui Wagner ha rivisitato, secondo il proprio estro e la propria personalità, ed arricchendoli di contenuti nuovi, sia i temi religiosi sia i temi mitologici. Analizziamo sinteticamente per sommi capi dapprima le opere religiose e di poi la mitica Tetralogia, secondo il loro ordine cronologico.

Il Vascello fantasma.  In questa opera Wagner affronta il tema della salvezza come teorizzata da Lutero, secondo il quale l’uomo si salva unicamente con la grazia elargita da Dio, il quale solo discerne coloro che la meritano: fatto quest’ultimo perfettamente spiegabile, in quanto Wagner nasceva da una famiglia protestante. Il messaggio religioso luterano è indubbio, in quanto la salvezza del protagonista viene ricondotta ad un qualcosa di esterno al peccatore caduto nel peccato, e precisamente in una sorta di grazia salvifica (manifestata, nella specie, attraverso il sacrificio di una innocente a favore di un’anima perduta). Il protagonista maschile dell’opera, e cioè l’Olandese, è un dannato per l’eternità, e per lui la salvezza viene da Dio indicata soltanto se e quando una donna gli giurerà eterna fedeltà. E’ poi noto che l’Olandese si salva perché Senta, la protagonista femminile, muore per lui. Tale tesi tipicamente luterana si contrappone in modo evidente alla diversa tesi cattolica secondo cui, dopo il sacrificio del Redentore, non occorrono altri interventi esterni, in quanto la salvezza dell’uomo è totalmente nelle sue mani, atteso che il rispetto dei comandamenti e l’accostamento ai sacramenti sono definiti da tutti i catechismi cattolici susseguitisi nel tempo, come condizioni “necessarie e sufficienti” alla salvezza. Tali condizioni, proprio in quanto necessarie e sufficienti, escludono che la salvezza dipenda dal sacrificio di altri per noi o da un ulteriore intervento della grazia. Notiamo che tuttavia Wagner non sceglie una trama di fantasia nella quale inserire la propria tesi salvifica, così come avviene per le opere contenenti messaggi religiosi di altri autori.

Al contrario, Wagner, per la tesi dell’intervento esterno sul peccatore e per la di lui salvezza, non inventa una trama, ma si avvale di una leggenda, quella, per l’appunto, dell’Olandese volante, che aveva antichi precedenti letterari. Tali precedenti, e la stessa trama della vicenda, costituiscono un misto, a ben guardare, di paganesimo e di cristianesimo. Ed infatti, se è certo riconducibile al cristianesimo il peccato dell’Olandese , è altrettanto vero che tale offesa alla divinità porta poi a delle conseguenze molto più simili a quelle che rinveniamo nei miti pagani. Sappiamo che, in questi ultimi, chi offende la divinità viene da quest’ultima punito in un modo non dissimile da quello dell’Olandese, e ciò con una pena eterna, non evitabile con il pentimento. Pensiamo alle Metamorfosi di Ovidio, il quale narra di punizioni per l’offesa alla divinità, in esito alle quali l’uomo viene trasformato in senso peggiorativo. Ricordiamo in particolare Aracne che, avendo osato sfidare Minerva nel tessere la tela, viene trasformata in ragno e destinata a tessere così la propria tela per l’eternità. Nell’Olandese volante il peccato del protagonista non viene quindi punito con una penitenza data in vita al peccatore ed idonea ad espiare il peccato, come è nella dottrina cristiana, ma con una dannazione per l’eternità a vagare nei mari in tempesta, fino a quando una donna non gli giurerà fedeltà a prezzo della vita. Tema questo che da un lato, aderisce alla tesi luterana della salvezza in base ad un evento esterno e non in base alla penitenza del peccatore, e dall’altro, immagina una punizione analoga a quelle inflitte dagli dei pagani, e che quindi nulla ha a che vedere con la penitenza redentrice propria del cristianesimo. Possiamo quindi concludere questa considerazione sull’Olandese volante notando come il tema sicuramente luterano, e quindi sicuramente religioso in senso proprio, viene in realtà inserito in una vicenda fiabesca più vicina alla mitologia che non alla religione.

Tannhäuser. Tale opera è quella in cui il tema religioso (peccato e redenzione) risulta totalmente presente, e comunque assai più che nelle altre opere. Al riguardo è subito da dire che la presenza di Venere, collocata da Wagner nella Germania cattolica del 1200, altro non sia che una metafora che la “pruderie” del tempo imponeva, non essendo nel 1840 consentito mettere esplicitamente in scena prostitute di alto rango come fece, per la prima volta, suscitando grande scandalo, Dumas con La Signora delle camelie. Ciò chiarito, l’impronta religiosa domina l’opera in modo totale, anche se Wagner ha notevolmente manipolato la figura storica di Santa Elisabetta. Detta santa è la seconda ad avere questo nome, e viene generalmente indicata come Santa Elisabetta d’Ungheria, in quanto figlia del re di quello Stato ed andata in sposa al Langravio di Turingia. Nella storia Santa Elisabetta rimase vedova assai presto, si ritirò in un convento e visse gli ultimi anni facendo del bene. Essa è ricordata sul calendario il giorno 17 novembre. Nella propria opera Wagner modifica la situazione di Elisabetta, affermando che la stessa era nipote del Langravio e non invece sua moglie, e descrivendola come donna innamorata di Tannhäuser, tanto da lasciare intendere che qualora quest’ultimo avesse vinto, per la seconda volta, la gara di canto, essa lo avrebbe sposato. Sul punto i riferimenti del libretto sono molto chiari.

Vediamo ora come è impostato e risolto il triplice tema religioso affrontato, e cioè

  1. a) quello della santità di Elisabetta,
  2. b)  quello del mancato perdono di Tannhäuser da parte del Papa, e,
  3. c) quello della sua redenzione grazie all’intercessione di Elisabetta medesima.

Innanzitutto si noti che Wagner, benché luterano, ambienta la vicenda, e la sviluppa drammaticamente, in un contesto rigorosamente cattolico, in quanto nella Turingia del 1200 la riforma luterana era ben lungi dall’essere avvenuta. Al riguardo è interessante notare come Wagner si mantenga fedele al pensiero cattolico allorquando afferma che Tannhäuser, pellegrino a Roma, ivi si recava onde effettuare una penitenza che gli consentisse di espiare il peccato. Wagner invece ritorna luterano nel momento in cui afferma, contro il pensiero cattolico, che il Papa ebbe a perdonare tutti i pellegrini tedeschi fuorché Tannhäuser (il che contrasta con il fatto che il pellegrino penitente, per un peccato oltretutto non gravissimo, non poteva che essere assolto e perdonato). Così facendo Wagner ritorna al principio luterano della salvezza realizzata soltanto in forza dell’intervento della grazia salvifica, in quanto afferma che Tannhäuser salva l’anima prima di morire, per intercessione di Elisabetta la quale viene riconosciuta come santa proprio perché compie il miracolo di trasformare il bastone da viaggio in albero fiorito.

E’ quindi interessante notare come, nell’episodio finale dell’opera, Wagner, ancora una volta, fonde fra loro due temi tipicamente cattolico l’uno, e luterano l’altro. Wagner infatti evoca la grazia salvifica indicata da Lutero (sia pure a mezzo di una santa e non per opera diretta di Dio), e, subito dopo, afferma la santità di Elisabetta in ragione del miracolo operato (che è invece tema tipicamente cattolico). Se infatti ci soffermiamo a leggere le parole finali dell’opera, notiamo che Tannhäuser, non perdonato dal Papa, muore salvandosi in esito al miracolo del proprio bastone, trasformato in albero fiorito, contestualmente alla invocazione: “Santa Elisabetta prega per me”.

Lohengrin.  A mio avviso, in quest’opera i temi religiosi risultano intrecciati con quelli di altra natura, in modo molto più complesso rispetto agli altri melodrammi.

Innanzitutto osservo che la trama della vicenda ha notevoli punti di affinità con i drammi di Shakespeare, in quanto:

  1. a) i cattivi (Federico ed Ortruda) sono equiparabili ai coniugi Macbeth: basta al riguardo leggere i loro dialoghi, rispettivamente scritti da Shakespeare e da Wagner;
  2. b) Elsa è ingenua e si comporta quasi come Desdemona nell’Otello, in quanto la sua insistenza presso Lohengrin assomiglia a quella di Desdemona presso il proprio marito;
  3. c) la vicenda è rigorosamente storicizzata, tra l’altro nella medesima epoca del Macbeth e cioè nel secolo X, in quanto il re Enrico è personaggio storico, così come lo sono i sovrani nelle tragedie di Shakespeare.

I temi religiosi certamente non mancano, e si presentano tuttavia con caratteristiche molto particolari, tanto che l’unico elemento religioso, quello del Gral, è evocato esplicitamente solo nella grande aria del terzo atto. La natura di Lohengrin quale cavaliere del Gral viene descritta in detta aria con un poetico miscuglio di religione e di fantasia. Ed infatti la figura dei cavalieri e soprattutto la loro attività nel combattere le ingiustizie nel mondo, viene, da un lato riportata alla funzione storicamente avvenuta dai cavalieri nel medioevo, e, dall’altro lato, alla missione che agli angeli è attribuita nella Bibbia, nel Vangelo e nel Corano. Sicuramente di carattere religioso è la presenza della colomba, simbolo della riconciliazione di Dio con l’uomo nel libro del Genesi al termine del diluvio universale, e simbolo dello Spirito Santo nella tradizione cattolica. Singolare inoltre è l’episodio del miracolo compiuto da Lohengrin nel finale dell’opera. Sappiamo infatti che il compimento dei miracoli nella letteratura religiosa è attribuito ai santi, mentre i cavalieri del Gral hanno la surricordata veste di cavalieri combattenti per la giustizia.

Altro elemento che deve essere ricordato è quello del duello fra Lohengrin e Federico, chiaramente riconducibile alla ordalìa medievale, sopravvissuta alla età barbarica anche presso i popoli germanici che si erano convertiti alla religione monoteista. L’ordalìa era infatti sconosciuta alla civiltà greca e a quella romana, ed era presente soltanto nelle tradizioni germaniche. E’ appena il caso di ricordare che l’ordalìa appare sicuramente una pratica eretica, in quanto la pretesa di coinvolgere il Dio creatore nel far vincere in un duello il cavaliere che aveva ragione, appare arrogante nei confronti del Dio stesso, e connessa a quell’intervento spontaneo degli dei pagani nei duelli, che troviamo tanto nella mitologia greca quanto nella mitologia germanica (pensiamo all’aiuto prestato da Venere ad Enea e al comportamento di Brunilde nel duello di Siegmund contro Hunding). Qualche considerazione si impone infine in ordine a quello che è il perno di tutta l’opera, e cioè l’obbligo imposto da Lohengrin ad Elsa di non domandare quale sia la propria origine. Tale tema, inserito in una leggenda sorta in epoca in cui la religione monoteistica era già affermata, può a mio avviso essere esaminato da almeno due punti di vista.

Innanzitutto, il divieto è certamente riconducibile al cosiddetto tabù comune a tutte le religioni e che, come è noto, viene sostanzialmente ricondotto al divieto di conoscere ciò che si desidera: il che vale per il famoso frutto del libro del Genesi e per tutte le forme di politeismo anteriore alla diffusione del monoteismo. Sotto altro profilo, e qui mi sia consentita una riflessione personale, non è da escludere una interpretazione riconducibile al pensiero di Emanuele Kant, che Wagner certamente conosceva. Il grande filosofo infatti, nelle ultime pagine memorabili della Critica della ragion pratica, afferma che tutta la verità non è stata giustamente rivelata, in quanto la sua completa manifestazione comporterebbe una necessaria ed automatica adesione alla fede, e quindi priverebbe la stessa adesion, da parte dell’uomo, del necessario valore morale, proprio in ragione del modo meccanico ed automatico con il quale la fede si imporrebbe. La non completa manifestazione di una verità che deve rimanere nascosta fino alla fine dei tempi, costituisce in altri termini un argomento tipicamente kantiano, in base al quale l’uomo deve comprendere che il valore morale del proprio comportamento deve fondarsi sulla fede intesa come fiducia e non sulla pretesa di conoscere tutto per poter credere.

ParsifalWagner ha sottotitolato il suo ultimo capolavoro come “dramma mistico”, e credette molto a tale definizione, tanto da disporre che l’ultimo atto doveva essere ascoltato dal pubblico in piedi e con divieto di applaudire. E’ altrettanto noto che Nietsche, grande amico di Wagner, ebbe con lui un violento litigio in ragione del riavvicinamento del grande musicista alla religione. Per la verità, tutta la critica che si è occupata del Parsifal ha grandemente ridimensionato la importanza del messaggio religioso che, secondo alcuni autori, si ridurrebbe a poca cosa. Personalmente, resto dell’avviso che l’unica opera di Wagner totalmente religiosa è quella dedicata a Santa Elisabetta di Ungheria, come ho ricordato parlando del Tannhäuser. Quanto alla religiosità del Parsifal, ritengo di poter assumere un atteggiamento, per così dire, centrista, che respinge sia la negazione di una autentica religiosità, sia la condivisione che il Parsifal risulti un dramma totalmente mistico (come affermato da Wagner). Innanzitutto osservo che il vero motore dell’opera è dato dal tema della tentazione. Wagner infatti sviluppa la trama narrando di due tentazioni (una assecondata ed una resistita). La prima è la tentazione assecondata dal peccatore, con suo successivo pentimento, e ciò riguarda sia Amfortas sia Kundry. La tentazione resistita è invece quella di Parsifal. Tale affermazione appare confortata da una semplice lettura del libretto.

Le tentazioni anzidette hanno un autore responsabile nel personaggio di Klingsor. Quest’ultimo è certamente una incarnazione, sia pure molto fantasiosa, di una potenza demoniaca che, proprio per il peculiare aspetto che assume nella descrizione wagneriana, evoca a mio avviso la tesi che Dostojewski afferma nel celebre romanzo “I demoni”. Secondo il grande scrittore il male può incarnarsi negli aspetti più impensabili, e quindi apparentemente innocui, tanto da essere per ciò particolarmente insidioso. Sul punto, mi ha colpito quanto Klingsor afferma all’inizio del secondo atto, nel quale, scorgendo che Parsifal si sta avvicinando, afferma che egli è la più forte delle sue prede, e quindi più difficile da indurre nel peccato, perché “gli è scudo la follia”. Detta follia,  che è insita nello stesso nome Parsifal, in realtà, a mio avviso, va intesa in un senso particolare, atteso che Parsifal non era certo pazzo ma era semplicemente un individuo profondamente semplice e ingenuo, che lo avvicina semmai “ai piccoli” dei quali parla anche il Vangelo. Fatte queste premesse di ordine generale, merita di essere ricordata la insidia con la quale Kundry opera il (fallito) tentativo di seduzione di Parsifal. Malgrado la identità della situazione, Wagner evita di ripetere lo svolgimento della tentazione secondo la descrizione che si rinviene nel Sansone e Dalila, l’opera di Saint-Saens. Kundry infatti evoca un argomento di grande efficacia nei confronti di Parsifal, in quanto dapprima, evoca il dolore della di lui madre morta in ragione della prematura morte del marito e dell’allontanamento del figlio, e di poi, afferma che detto dolore deve essere consolato con lo stesso amore che il padre di Parsifal provò per la di lui madre.

L’argomento seduttivo appare particolarmente efficace in quanto ben camuffato con un valore profondamente morale, identificato con l’amore in forza del quale i genitori diedero vita a Parsifal. Ritengo ora di effettuare qualche considerazione sulle due realtà della cui religiosità si è dubitato, e cioè sul Gral, quale coppa dell’ultima cena, e sulla lancia, sottratta da Klingsor ad Amfortas (e che sarebbe quella con la quale fu aperta una ferita nel corpo di Cristo in croce). Siamo a mio avviso nel campo delle cosiddette reliquie, che nella tradizione cristiana sono ben presenti e sulle quali la Chiesa si è limitata ad un atteggiamento di prudenza senza alcun ripudio preventivo. Ricordiamo, ad esempio, il chiodo, che secondo una tradizione sarebbe custodito nella corona ferrea che si trova nel Duomo di Monza; la croce di Cristo, che secondo una tradizione sarebbe stata rinvenuta da Santa Elena, madre dell’imperatore Costantino; ed infine, la stessa sacra Sindone custodita nel Duomo di Torino. Trattasi di tradizioni sicuramente religiose nell’intento di coloro che le hanno elaborate, e che certamente non hanno nulla di eretico anche se la loro veridicità non è sicura. In tale prospettiva la tradizione evocata da Wagner nel Parsifal – quella delle due reliquie in possesso dei cavalieri, cioè la coppa dell’ultima cena e la lancia -, appare sostanzialmente in linea con quelle del chiodo della croce e della sindone sopra ricordate.

Siamo dunque in presenza di una fantasia radicata in un filone di pensiero sicuramente religioso, e che Wagner ha semplicemente attribuito ad oggetti diversi (la coppa e la lancia) da quelli della tradizione cattolica che più sopra ho ricordati. La sconfitta di Klingsor e la riconquista della lancia da parte di Parsifal esprimono semplicemente il principio che solo l’innocenza (tale è il senso da attribuire alla follia di Parsifal) può cancellare il peccato  di Amfortas, non bastando a tal fine il di lui pentimento. Il che mi pare quantomeno in linea con i principi della religione luterana. Queste considerazioni inducono a ritenere che Wagner, essendo un artista e non un teologo, ha trattato i temi della religione amalgamandoli con quelli della fantasia.

Consideriamo ora la Tetralogia, seguendo l’ordine cronologico del ciclo.

L’Oro del Reno. Qui si impongono a mio avviso due considerazioni fondamentali. La prima considerazione scaturisce dalla celebre battuta di Woglinde, secondo cui soltanto chi rinnega la forza dell’amore potrà disporre del potere assicuratogli dal possesso dell’oro. Tale affermazione costituisce il motore dell’intera Tetralogia, in quanto dal rapporto oro/amore scaturiscono tutti i fatti che sviluppano e concludono il dramma. Tale affermazione a ben guardare affonda le sue radici nei testi della religione a cominciare

  1. a) dal sogno di Salomone, e,
  2. b) dalle due fondamentali frasi del Vangelo secondo le quali sono beati coloro che restano distaccati dalle ricchezze, e non si possono servire due padroni, Dio e il denaro.

E’ dunque singolare che l’intera Tetralogia, pur sviluppando nel modo che vedremo storie di dei e di uomini che interferiscono fra di loro, colloca come motore dinamico di tutta la vicenda un argomento tipico delle religioni monoteistiche. Lascio ai lettori di valutare sull’importanza di questo tema in una epoca come la nostra che ha visto lo stesso potere politico soppiantato dal potere finanziario. La seconda considerazione, che scaturisce da una attenta lettura del libretto, riguarda il comportamento degli dei in ordine al compenso da pagare ai giganti per la costruzione del Walhalla. Siamo in presenza di un comportamento di tutti gli dei che, con quello delle divinità pagane, a ben guardare nulla ha a che vedere. Gli dei infatti si esprimono come gli esponenti di una alta società ambiziosa, avara e fedigrafa. Wotan infatti nella sua qualità di committente del palazzo costruito dai giganti  in veste di appaltatori, ricorre, sia pure condizionato da Loge, a tutti gli espedienti per non pagare il compenso pattuito. Wotan infatti non ha esitato a cedere la dea dell’amore mostrando così un comportamento caratteristico di certi padri di famiglia del passato che costringevano figlie e sorelle a sposare qualcuno controvoglia purché questo qualcuno salvasse la famiglia dalle difficoltà finanziarie.

Gli esempi di questo clima alto borghese di fine secolo si rinvengono sia nella frase di Fricka, la quale si preoccupa di ottenere dal proprio marito una casa regale con comodi arredi, sia nella frase di Wotan, che ammette di essere stato indotto da Loge a promettere la dea dell’amore ai giganti con riserva mentale di sottrarsi a detto impegno, sia nella frase di Fasolt, il quale, con una terminologia sindacale, rivendica il diritto al compenso per aver sudato con mano callosa nella costruzione del Walhalla. Cito al riguardo e a riprova tre esempi: Freia quando sta per essere ceduta ai giganti, dichiara testualmente: “Aiuto salvatemi dai bruti!”; Fricka, riferendosi all’oro rubato ad Alberico, afferma che “i gioielli d’oro sono utili alle donne e quindi anche a me”; infine Alberico, rivolgendosi a Wotan, dichiara che “con l’oro di voi divini faccio i miei servi”. Vi è a questo punto da chiedersi se simili espressioni siano riferibili a soggetti di natura divina e non invece a comuni mortali arrivisti ed egoisti. Ricordiamo infine la frase di Wotan con  la quale, dopo essere stato istigato a offrire ai giganti l’oro rubato da Alberico, ammette la propria impotenza ad impossessarsene; salvo ricredersi, a fronte della offerta di Loge di ricorrere ad una ulteriore frode per conquistarlo. A ricondurre poi la disputa alto borghese del committente con gli appaltatori nel clima tipico delle saghe di importanti famiglie che troviamo nei Forsyte dei Krupp e dei Buddenbrock si colloca la figura di Loge, parente cinico ed opportunista, che conduce un proprio gioco meditando la vendetta nei confronti dei parenti, apparentemente più potenti, onde portarli alla rovina.

A questo punto non rimane che concludere che nell’Oro del Reno di mitologico vi è soltanto l’espediente con cui Loge convince Alberico, dopo la di lui dimostrata capacità di trasformarsi in un mostro, ad assumere la sembianza di un rospo (il che consente la sua cattura e la contestuale sottrazione dell’elmo magico e di tutto l’oro). Questa situazione è del tutto identica a quella che Perrault, il celebre scrittore francese del ‘600, aveva immaginato per la notissima favola Il gatto con gli stivali, nella quale come è noto il gatto convince l’orco a trasformarsi in topo onde divorarlo ed impossessarsi delle sue ricchezze. L’identità della situazione fra la condotta di Loge descritta da Wagner e quella escogitata da Perrault, è di tutta evidenza, e non certo a caso la critica francese è unanime nell’attribuire a Perrault la capacità di avere raccontato favole secondo lo stile ed il clima che si rinvengono nei racconti mitologici. In tal modo resta confermata la tesi che il mito (che, ricordiamo, in greco significa favola) e le favole hanno dei punti di contatto del tutto evidenti.

La Valchiria. Una chiave di lettura di questo capolavoro, che prescinda dalla musica e si concentri sul libretto, evidenzia, in ordine al mito e alla religione, una situazione di fondo. Mentre il primo atto racchiude il dramma tipicamente borghese dell’adulterio fra Sigmund e Siglinda (con la ovvia e prevedibile reazione del marito tradito), il secondo e il terzo atto trattano a tutto tondo quell’aspetto della mitologia evidenziato dal rapporto fra gli dei pagani e gli uomini. Questo rapporto conflittuale si manifesta in una triplice direzione: il rapporto fra Wotan e Fricka, il rapporto fra Wotan ed il figlio Sigmund, ed infine, il rapporto fra  Brunilde ed il fratellastro Sigmund. Tali rapporti tuttavia si sviluppano in modo molto diverso rispetto a quello della tradizione mitologica fondata sulla ubris degli uomini e lo fzonos degli dei. Ed infatti Wotan  è costretto a revocare, contro voglia, la protezione accordata a Sigmund, onde rispettare le leggi da lui volute e che Fricka gli ha imperiosamente ricordato.

Nasce quindi nell’animo di Wotan non già la vittoria del dio pagano sull’uomo, ma l’amarezza del padre costretto a sacrificare il figlio per rispettare la legge (il che è totalmente assente nella mitologia greca ed evoca semmai i drammi moderni che Wagner ben conosceva: si pensi al rapporto Filippo II/Don Carlos nel dramma di Schiller). Analogamente distaccato dalla tradizione mitologica greca è lo sviluppo del rapporto Brunilde-Sigmund. Ed infatti la Valchiria, commossa per il destino dei due amanti, si sottrae al volere paterno onde salvarli, intuendo, probabilmente, di dover rischiare di persona per tale salvataggio (come di fatto si verificherà nel terzo atto). E’ quindi interessante notare come la tematica, rigorosamente mitologica nelle sue premesse (rapporto fra gli dei pagani e gli uomini), venga sviluppata da Wagner in una direzione drammatico-romantica che nulla ha a che vedere con quella che caratterizzava invece la mitologia greca.

Sigfrido.  E’ questa senz’altro l’opera più dominata dalla mitologia. Ed infatti Sigfrido vive nell’opera la sua epopea di eroe nazionale del mito germanico. Tanto è intensa la sua appartenenza al mito, che la figura di Sigfrido può essere equiparata a quella di Achille nella mitologia greca. L’analogia fra i due eroi è stupefacente, soprattutto se si considera che le due culture (greca e germanica) non sono mai entrate in contatto fra loro. Ed infatti Achille e Sigfrido sono entrambi discendenti da una divinità (Achille era figlio del mortale Peleo e della dea Tetide mentre Sigfrido era nipote diretto di Wotan, capo degli dei). Entrambi erano invulnerabili, rispettivamente in ragione della immersione nel fiume Lete e nel sangue del drago, fuorché in un solo punto del loro corpo che rimaneva vulnerabile (Achille nei talloni e Sigfrido nella schiena). Entrambi vengono uccisi a tradimento, in quanto il segreto dell’unico punto della loro vulnerabilità era stato svelato con l’inganno. Giustamente quindi il Carducci, ottimo conoscitore dell’antichità classica e della cultura germanica, paragona l’eroe greco all’eroe germanico in una sua poesia. A mio avviso, l’unico tema non mitologico rinvenibile nel Sigfrido è quello del senso della natura, che Wagner descrive nel libretto nei noti episodi del Mormorio della foresta e dell’ uccellino che svela a Sigfrido dapprima le trame di Mime, e di poi il percorso per raggiungere Brunilde.

Questo senso della natura che Wagner inserisce in un contesto mitologico, appare anche riconducibile a quella filosofia, contemporanea a Wagner, che ha dominato la cultura tedesca, e precisamente l’idealismo oggettivo di Schelling. Questi, come noto, identificava il mondo come una umanità pietrificata, creando così un contatto particolarmente forte fra l’uomo e l’ambiente. Innumerevoli sono i casi che rinveniamo nella letteratura dell’800, anche non tedesca,  nei quali il rapporto fra l’uomo e il creato è particolarmente forte. Pensiamo ad esempio al celebre verso del Child Harold di Lord Byron: “and these mountains are for me a feeling”. A ben guardare, peraltro la concezione della natura nella mitologia classica  – che sappiamo incentrata sul senso del magico, sulla metamorfosi e sulla sacralità di certi luoghi -, affiora anche nel Sigfrido, limitatamente al profilo del magico e del metamorfico, come si rinviene negli effetti, per l’appunto magici, dell’anello, del sangue di Fafner e della trasformazione di detto gigante in drago. Nel caso poi del Sigfrido, improntato all’ottimismo, il rapporto uomo-natura risulta positivo tanto che consente al protagonista dell’opera di evitare l’insidia di Mime e di raggiungere Brunilde.

Il crepuscolo degli dei. Se il Sigfrido è certamente l’opera dell’ottimismo, che vede l’eroismo trionfante sul male tanto da sventare gli intrighi di Mime e da sconfiggere Fafner, il Crepuscolo degli dei è certamente l’opera del pessimismo, composta da Wagner sotto il ben noto influsso della filosofia di Schopenhauer: il che si spiega agevolmente, in quanto il lungo tempo impiegato per la composizione della Tetralogia ha comportato eterogenee suggestioni culturali nel pensiero di Wagner. Ma, ancora una volta, il pessimismo del Crepuscolo degli dei non risulta tragico-pagano come nella mitologia greca (nella quale le migliori intenzioni dell’uomo soccombono per il capriccio degli dei), in quanto nel dramma di Wagner sono gli stessi dei a soccombere insieme agli uomini migliori. Si consideri, al riguardo, la morte di Sigfrido, di Gunther e di Brunilde unitamente alla fine degli dei e del Walhalla. E’ quindi dato ravvisare un pessimismo riconducibile a quello descritto da Shakespeare nelle sue tragedie: un pessimismo, cioè, che non risolve il dramma con la catarsi, ed anzi lo spinge sino in fondo, senza tuttavia permettere che il male trionfi. Nei più noti drammi di Shakespeare il male non trionfa affatto, ma, prima di essere sconfitto, miete molte vittime innocenti. Si pensi all’epilogo del Re Lear e dell’Amleto.

Nel Crepuscolo degli dei infatti Hagen vede vanificato il proprio perverso progetto, e muore egli stesso dopo aver provocato la morte di molti innocenti. Vi è dunque il duplice fallimento degli dei e degli uomini causato dal fatto che entrambi erano posseduti dalla cupidigia di denaro. Singolare è dunque il fatto che nel Crepuscolo degli dei anche gli stessi dei, e non solo gli uomini, soccombano. Senonché nella soccombenza degli dei pagani – che Wotan sin dall’inizio aveva temuto e che in seguito ha invano contrastato -, si ravvisa una evidente contraddizione. Gli dei pagani infatti sono concepiti come immortali ed invincibili (salvo ovviamente negarne l’esistenza come indicato dalle religioni monoteiste). Per contro, immaginandoli nella loro originaria concezione, non è possibile attribuire loro la morte e la fine del loro potere, in quanto essi vengono, per l’appunto, concepiti come immortali.

La contraddizione è talmente vistosa da recare conforto alla tesi di Bernard Shaw il quale, nel suo noto saggio, aveva indicato nella Tetralogia una metafora del fallimento della classe dominante dell’800 rimasta ancorata a valori del passato. E’ noto che da almeno 50 anni a questa parte la Tetralogia ha cessato di essere rappresentata in forma mitologica, e viene invece ambientata in una classe sociale elevata, nella quale gli dei divengono semplici esponenti della classe stessa. Questa interpretazione, confortata da una attenta lettura del libretto, scevra dalle suggestioni epicheggianti della musica, è attualmente dominante. Tuttavia, a mio modesto avviso, detta interpretazione potrebbe non essere l’unica. Ed infatti la mitologia descritta nella Tetralogia può essere letta non già come una metafora della classe dominante al tempo di Wagner, bensì come una metafora di quel conflitto senza tempo – che abbiamo trovato nel passato, troviamo nel presente e troveremo senza dubbio nel futuro -, fra l’amore ed il potere.

In ragione di ciò la teoria di Bernard Shaw, che ha superato la chiave di lettura strettamente mitologica, risulta a propria volta superata dal fatto che tutte le vicende della Tetralogia appaiono diacroniche nella storia, in quanto la attraversano sistematicamente. In questa terza possibile chiave di lettura si ravvisa un ulteriore ridimensionamento dell’effettivo peso della mitologia nella Tetralogia e si rinviene, piuttosto, un messaggio morale ancorato ai principi della religione monoteista che ho più sopra ricordato. Il sogno di Salomone nella Bibbia e le pagine del Vangelo insegnano che chi ama solo il denaro, e quindi il potere che esso assicura, non può conoscere l’amore.

Vorrei a questo punto terminare prospettando la seguente conclusione di sintesi del nostro tema.

Wagner, nelle opere religiose, non ha mai completamente rinunciato (salvo, forse, che nel Tannhäuser) ad inserire forti componenti favolistiche e quindi mitologiche . Wagner per contro, nella Tetralogia

  1. a) ha attribuito agli dei pagani il perenne conflitto, presente nelle religioni monoteistiche, fra l’amore ed il potere;
  2. b) ha infine risolto la soccombenza degli uomini (e degli dei) al potere del denaro nei termini di una drammaturgia post-classica;
  3. c) con la morte degli dei ha contraddetto la tesi della loro immortalità, escludendo la adesione al loro mito.

Nella Tetralogia il mito è presente, ma esso costituisce il tramite e non il contenuto del grande poema musicale Wagneriano. Ed infatti il vero contenuto di tale poema è quello che abbiamo visto come fondamentale nella tradizione giudaico-cristiana, secondo cui la cupidigia della ricchezza porta alla rovina. Ne discende che il mito germanico non è trattato allo stesso modo con cui Omero ed Eschilo hanno trattato il mito greco. Il mito viene usato da Wagner come pura facciata, e comunque come il tramite per esprimere un principio eterno che attraversa tutta la storia in modo diacronico, e cioè per l’appunto il principio della rovina a cui conduce la rinuncia all’amore ed alla scelta del potere. Che ciò sia vero risulta confermato anche nei nostri giorni. Ed infatti la cupidigia di denaro di coloro che nel settembre 2008 hanno provocato il fallimento della Lehman Brothers, con i devastanti effetti domino sulla finanza mondiale, non era certo inferiore a quella di Wotan, Mime, Alberico ed Hagen.

Avv. Marco Polastri Menni

Bibliografia

1) Platone: Timeo

2) Bibbia: Pentateuco

3) Aristotele: Organon

4) Aristotele: Metafisica

5) Jacob Burckhardt: Meditazioni sulla storia universale

6) Ovidio: Le metamorfosi

7) Christoph Looten: Dans la tete de Wagner

8) Gaston Boissier: La fine del paganesimo

9) Giampiero Zetti:  S. Elisabetta d’Ungheria

10) R. Radice, A. Valvo:  Dal logos dei Greci al logos di Dio